Mircea Cǎrtǎrescu (trad. di Bruno Mazzoni); Il Saggiatore, 2021
«I viticci dell’inchiostro sono scesi, pian piano, sul petto, collocando sulle costole oboi, cobra e vascelli, disponendo intorno ai miei capezzoli le bocche spalancate delle piante carnivore. Ho ornato il mio ventre con volte di cattedrali cariche di figure allegoriche, con l’ombelico al centro, circondato da raggi e colombe, ho poi inciso sul sesso e sulle natiche demoni, gryll e troll e orge immonde [...]. Felice nella sofferenza della mia pelle, sentivo di non avere più limiti, che tutto mi è permesso, che ho incifrato, là, dentro i meandri, le volute, le coppe e le spine del mio tatuaggio, l’algoritmo dell’essere e la formula della divinità.» (p. 247)
Scrivere di Cǎrtǎrescu non può essere un’operazione semplice. La sua poetica è statutariamente complessa e rizomatica, volta ad amplificare e rigenerare significati, connessioni, suggestioni. In breve, non si può dire che un libro di Cǎrtǎrescu parla di Bucarest, della scuola, della letteratura, del cosmo, della Divinità o della morte: un libro di Cǎrtǎrescu semplicemente parla, sgorga dalle sue stesse pagine. L’autore ammette e difende questa scelta, che si può definire un metodo: “Non ho pensato a cosa avrebbe contenuto il romanzo: un giorno ho semplicemente iniziato a scrivere, senza alcun piano, scrivere da una pagina all’altra, come si dice che si vive da un giorno all’altro. Scrivere è una questione di fede”. Chi si avventura dentro Solenoide non troverà una trama. Troverà un personaggio – un narratore – che ha una biografia che arricchisce in continuazione, fatta di luoghi, di familiari, di amici, amanti, colleghi. L’intreccio non si limiterà a riportare i fatti avvenuti, ma li intesserà con miti personali e collettivi, allucinazioni, sogni e visioni, tutte cucite organicamente in una realtà che si deforma di continuo.
Per fare questo l’autore ricorre spesso a lunghe e vertiginose sequenze descrittive, dove da un lato possiamo entrare in contatto con un’arte sopraffina, dall’altro assistere ad un continuo allontanamento dell’azione narrativa.
Perché l’autore sceglie di rimandare continuamente lo svolgimento della storia? Semplice: il tempo, per come lo concepiamo, è un’illusione. Così come lo spazio. E, in ultima analisi, la realtà. L’idea fondamentale del libro è che siamo destinati a dover esistere in un mondo che non possiamo comprendere né conoscere. L’oggetto più emblematico di questo concetto è il solenoide: si tratta di una grossa bobina di rame di cui un architetto visionario ha seppellito alcuni esemplari diversi punti di Bucarest, ed uno di questi si trova proprio sotto la camera da letto del protagonista. Quando egli scopre come attivare il solenoide – tramite un interruttore nascosto – il marchingegno inizia a ronzare e chiunque si trova sul letto riesce a levitare, ad abbattere la forza di gravità. In questa sospensione amniotica il protagonista legge, dorme, riflette, fa l’amore con le proprie amanti; ma questa elevazione, questo superamento della contingenza umana, si ferma qui. Come dire: in questa realtà possiamo levitare, possiamo alzarci di poco al di sopra, ma non possiamo volare, non possiamo andarcene.
«Quando sono tornato dal bagno ho trovato Irina al centro della stanza. E non perché si fosse alzata dal letto e avesse girato per casa, ma perché levitava, nuda e livida, a un metro al di sopra del letto, con le mani sotto la testa e i capelli biondi fra le dita sciolti verso terra. “Devo andare” mi disse “per oggi è sufficiente”. Non riuscivo a dire una parola. Vitrea, semitrasparente, con gli organi interni che si muovevano oscuramente, con lentore sottopelle, Irina fluttuava nell’area bruna, e tutto era come un vecchio ricordo, impossibile da localizzare.» (p. 125)
Un’elevazione incompleta, questo è il senso del susseguirsi di immagini del romanzo. Ogni personaggio, ogni tema affrontato, espande i suoi significati simbolici fino a contraddire la propria realtà. Ad esempio Bucarest, luogo in cui è ambientato gran parte del romanzo, appare come una città che è al tempo stesso povera, decadente e triste, è tuttavia piena di mitologia inaspettata, di sacrari, di labirinti e caverne delle meraviglie. I personaggi scoprono questi luoghi enigmatici e si stupiscono, ma poi tornano alle loro vite. Non possiamo non pensare, davanti a queste scene, al nostro incompleto stupore di fronte alle immagini di galassie, nebulose, buchi neri: è tutto reale e al tempo stesso impensabile, una realtà di cui siamo parte, ma che ci sfugge continuamente.
Cǎrtǎrescu dice al lettore: guarda quanto siamo piccoli e quanto siamo grandi, perché queste cose possiamo vederle, descriverle, studiarle e, anche se non comprenderle, per lo meno conoscerle. Da qui derivano i grandi e continui riferimenti alla fisica, alla biologia, alla matematica e all’entomologia. Proprio quest’ultima disciplina è lo specchio della connessione cosmica fra l’uomo e l’universo, come a dire che ciascuno di noi è l’infinito universo dei miliardi di organismi che ci abitano, con cui dividiamo proteine e aminoacidi: noi li creiamo e distruggiamo di continuo, e non sappiamo come comunicare con loro, allo stesso modo, loro non pensano alla nostra esistenza.
Per concludere, potremmo descrivere Solenoide come un viaggio, un lungo viaggio per mare, di notte, senza bussola, senza direzione, senza possibilità di naufragare. Una condanna ad abbandonarsi allo splendore sensibile del suono delle onde, al profumo dell’oceano e alla vista costante delle stelle. Un viaggio meraviglioso e terribile: la vita stessa.
Consigliato a… chi crede che la letteratura abbia bisogno di tempo per dare il meglio di sé; chi vuole perdersi nella genialità descrittiva; chi vuole sentire una connessione fra la scrittura e la spiritualità.
«Gli ho instillato però un desiderio struggente che non avevano ancora mai provato, una nostalgia per qualcosa di impossibile da immaginare, assurda e opposta a tutte le loro credenze precedenti, un bisogno di partire, di abbandonare la loro metropoli alla ricerca di un’altra, di un’altra dimensione, dove incontrare il loro fantastico creatore. Colui che, a dispetto di tutti i miei sforzi, non sono riusciti a immaginare se non come un acaro infinitamente pigro e indicibilmente triste.» (p. 866)
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