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Parliamo di… Settimana Santa tarantina

  • Immagine del redattore: Lo Scisma
    Lo Scisma
  • 7 apr 2023
  • Tempo di lettura: 3 min

Perdùnǝ in processione (foto di Sharon Orzella)


Nati nella seconda metà del XVI secolo, per effetto della dominazione spagnola, i riti della Settimana Santa tarantina rappresentano oggi una manifestazione religiosa e popolare molto importante; forse la più importante dell’Italia meridionale.

La ricostruzione storica che lega la tradizione tarantina a quella spagnola è molto difficile da definire; le prime testimonianze dei riti della Settimana Santa risalgono al 1500 con l'occupazione spagnola e alla fine del 1600 con la nascita delle prime confraternite.

Il rito, scandendo le tappe principali che precedono la Pasqua cristiana, evidenzia oggi il suo momento più solenne nella celebrazione della processione dei Misteri del Venerdì Santo: una via crucis itinerante che, attraversando le strade principali della città di Taranto, ripercorre la passione, la morte e la resurrezione di Gesù Cristo.

Molto sentita dai fedeli del territorio, la processione non è solo rappresentazione di un rituale religioso; alla fede e alla devozione, infatti, si uniscono la tradizione e il folklore. La commistione di questi elementi, dunque, definisce il rito che, oltre ad essere molto impegnativo (la processione si protrae per tutta la notte), si rivela complesso e articolato. L’inizio (e anche la fine) è sancito dal suono della troccola, strumento popolare costruito in legno e caratterizzato da maniglie in metallo; seguono il gonfalone (la bandiera della confraternita) e una serie di statue: Cristo all’orto, Cristo alla colonna, l’Ecce Homo, la Cascata, il Crocifisso, la Sacra Sindone, Gesù morto e l’Addolorata. A rendere ancora più solenne e intenso il momento è la partecipazione delle bande musicali della città e della provincia che, accompagnando la processione, scandiscono i momenti di preghiera suonando le più famose marce funebri.

La prima documentazione scritta della processione dei Misteri risale al 1765 quando la confraternita del Carmine (nata nel 1675) riceve in dono dal patrizio Francesco Antonio Calò le due statue considerate oggi le più importanti: la statua di Gesù morto e la statua della Madonna dell’Addolorata. Costruite a Napoli agli inizi del 1700 su commissione del donatore, lo zio Diego Calò, queste sfilarono in processione la sera del Venerdì Santo, come simbolo di penitenza e preghiera in seguito a una carestia sopraggiunta in città nel 1703.

Insieme alle statue plastiche - riproduzione dunque della Passione di Cristo -, a interessare maggiormente i riti della Settimana Santa tarantina è la presenza dei perdoni, coppie di confratelli che, percorrendo le vie della città in processione, avanzano a passo lento, attraverso un movimento che, ricordando il percorso di Gesù verso la croce, si rivela simile a un dondolio. E lǝ perdùnǝ, in dialetto tarantino, rappresentano quell’eredità cinquecentesca spagnola che, ancora oggi, si documenta non solo nella tradizione tarantina ma anche in quella della penisola iberica. I perdoni, indossando un camice bianco, coperti con un cappuccio forato all’altezza degli occhi, camminano scalzi poggiati al bordone, un bastone che richiama quello usato dai pellegrini in viaggio verso Roma, partiti per chiedere la remissione dei peccati commessi.

Ed è in questo clima di sofferenza, di devozione, di fede che la notte del Venerdì Santo lascia il suo posto alle prime luci dell’alba del Sabato Santo: dopo ben quindici ore, la processione giunge al termine e il troccolante, bussando con il suo bordone alla porta della chiesa del Carmine, chiude definitivamente il rito della Passione di Cristo. La chiesa, aperte le sue porte, accoglie dunque tutte le statue attendendo in silenzio il momento successivo: la resurrezione del suo Dio.

 
 
 

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