M. Fingerle; Italo Svevo Edizioni, 2021
«E invece arrivano una bella ragazza e un cameriere e una stupida pizza e come se niente fosse dimentico i miei princìpi, le mie promesse, la mia storia. Mi sciacquo la faccia, mi guardo allo specchio e chiedo scusa a papà, dico: Scusa scusa scusa scusa scusa scusa scusa […]. Per un attimo cerco di convincermi che non è andata com’è andata. Mi dico in testa che ho detto Rucola e non rucola, con la erre maiuscola alla tedesca, mica all’italiana. La erre era tedesca. Ma chi voglio prendere in giro? Che cosa ho fatto!» (p. 101)
Paolo Pescher, il protagonista e narratore di Lingua Madre, odia quando gli sporcano le parole. Fin dall’inizio il lettore deve fare i conti con questa fissazione di Paolo: chi sporca le parole è per lui una persona tossica, sciocca, se non addirittura pericolosa. Una in particolare è responsabile di questo oltraggio linguistico (che è un oltraggio all’ordine, al cosmo, e anche all’identità, visto che la storia è ambientata a Bolzano, città in cui le lingue si confondono), la madre di Paolo, una persona superficiale nella scelta delle parole. Si potrebbe dire che Paolo prova odio per lei come apre bocca.
È difficile spiegare a chi non ha letto il libro cosa s’intende con pulizia delle parole. Ci può aiutare pensare che il padre di Paolo è muto. A differenza della madre (con la quale naturalmente il rapporto è pessimo) Biagio Pescher non usa le parole, e quindi non le sporca; per questo è sempre ordinato, sempre pulito, buono, coerente. Ma quella di Paolo è un’illusione, e infatti la vicenda del padre farà attorcigliare gli eventi su se stessi, mostrandosi prima come una luce di speranza e rivelandosi poi un trauma irrisolto.
Nonostante il regionalismo, il consueto e inesorabile andirivieni tra centro e provincia, la storia di Paolo è comunque una vicenda drammatica, benché nascosta sotto un fluire di pensieri superficiali e a tratti ironici. Questo sforzo di reprimere le emozioni sotto i suoni, i colori, i sapori delle parole, non può confinare a lungo la malinconia, la solitudine e la disperazione di Paolo; e nonostante la buona direzione che sembra prendere il destino, esse riemergono più aggressive e incontrollate che mai.
Consigliato a… chi ama lasciarsi prima illudere dall’ironia, dai narratori sciocchi e superficiali, e vedere poi lacerata l’illusione. Chi cerca la profondità psicologica, ma ama leggerla in controluce, senza lasciarsi spiegare niente. Chi non cerca la solita storia regionalista, che esalta il bilinguismo o la metaletteratura, ma vuole vedere questi elementi dare vita al disordine emotivo.
«Esco e vado a camminare lungo l’Adige, anche se continua a piovere e non ho l’ombrello. Mi bagno tutto e non ce la faccio più, mi fermo sul ponte e guardo l’acqua che rompe gli argini, è così pieno, alto e torbido. Cerco di non pensare al colore e chiedo al fiume: Che fare, per salvarla? Non mi risponde e io prego, prego l’acqua e il rumore e l’odore dell’acqua: Che fare, per salvarla? Ti prego, rispondimi. Mi sento di nuovo solo, ma ora lo so, sì, ora sento una forza, una certezza: so che la salverò, che troverò una soluzione. Es regnet so stark und es ist so schön, wenn es so stark regnet» (p. 181)
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