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Parliamo di... Leopardi, "L'infinito"

Ritratto di Giacomo Leopardi


«Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

E questa siepe, che da tanta parte

Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi al di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura. E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva, e il suo di lei. Così tra questa

Immensità s’annega il pensier mio:

E il naufragar m’è dolce in questo mare.»



La lezione che Leopardi ancora oggi vuole offrire è nel non essere comuni, distinguendoci attraverso l’elemento più potente che ogni uomo possiede: il pensiero. La cecità e la superficialità pervadono il nostro quotidiano e l’uomo si mostra meno attento nell’osservare i dettagli che ha intorno, considerati di poca importanza. Mediante l’Infinito, il poeta ci insegna a osare, a superare i confini del reale attraverso l’immaginazione.


L’esperienza narrata dall’io lirico coincide con l’esperienza vissuta dall’io biografico: Leopardi, come uomo, comprende quanto al di là del limite oggettivo della realtà, si possano superare quei confini e vivere dunque nuove sensazioni. L’uomo, certamente limitato, può, attraverso la mente, oltrepassare quello stadio e immaginare una realtà infinita, che il corpo è in grado di percepire.

Oltre l’ostacolo rappresentato dalla siepe, il poeta è in grado di immaginare «interminati spazi» e «sovrumani silenzi», «fingendosi» nel pensiero, cioè immergendosi in quella sua immaginazione capace di recargli un’illusione: l’illusione di una certa ir(realtà).


Ma l’uomo è davvero in grado di percepire una sensazione infinita?

Ad un anno dalla stesura della lirica, Leopardi sostituisce la parola infinito con indefinito. Qual è la differenza? Per il poeta, il piacere infinito vissuto dall’uomo, e dallo stesso Leopardi, nasconde, in verità, una sensazione indefinita. La conoscenza dell’uomo, infatti, non può essere infinita perché non appartiene alle sue capacità sensibili, che si rivelano finite e limitate. La percezione dell’uomo verso una dimensione che è al di là del reale si presuppone indefinita e vaga, proprio perché non conoscibile attraverso i sensi. La sensazione indefinita, che il poeta descrive nella poesia, è evocata dalle sensazioni fisiche.

La siepe si rivela ostacolo, impedendo dunque la visione al di là dell’estremo orizzonte. L’impedimento però permette al poeta di «mirare», cioè di contemplare una certa realtà interiore. Mirare, dunque, «gli interminati spazi al di là da quella» siepe (vv. 1-5). Il pensiero del poeta, che va ben oltre gli spazi infiniti, immagina dei silenzi sovrumani (silenzi che sono al di là di quelli percepiti dall’essere umano) e una quiete profondissima. Questa percezione indefinita determina nel poeta non solo stupore ma anche paura; il brivido di questo timore fa parte del piacere stesso e dell’esperienza sensoriale provata.


Dall’esperienza visiva, segue quella uditiva: il vento si innalza e il poeta ascolta lo stormire delle foglie. È proprio il vento a innescare il dato sensoriale e il poeta, che «si finge» nel pensiero, paragona questo dato finito all’infinito silenzio creato appunto dall’immaginazione. L’emozione del poeta è evidente: la realtà è oscurata dall’infinito del tempo evocato dalla sensazione acustica.

«Mi sovvien» (v. 11), scrive Leopardi, ovvero “mi viene in mente” il pensiero dell’eterno, le epoche passate ma anche il presente che ancora scorre («la presente e viva» vv. 12-13) e il suono delle imprese e delle azioni degli uomini che il tempo dissolverà per sempre («il suon di lei» v. 13). L’eterno, le morti stagioni, il suon di lei, definiscono una circolarità dettata da questo infinito spaziale e temporale che si ripete tutte le volte che Leopardi torna su quel colle.


Avvicinandoci ai versi finali, si nota come la paura iniziale sia mutata in sensazione di dolcezza e piacere: «così tra questa immensità» (il “tra” contrappone l’infinito spaziale e temporale sopra citato) “il mio pensiero si smarrisce”. E «il naufragar» nel mare dell’infinito, ovvero questa immersione della mente, provoca nel poeta una sensazione di pace e dolcezza.

L’immaginazione dell’infinito, dunque, paragonata all’immensità del mare, rivela la sua opposizione con “l’ermo colle” in apertura.

Da una realtà finita si approda ad una realtà immaginativa ovvero indefinita.



Riferimento bibliografici:

  • Baldi Guido, Giusso Silvia, Rametti Mario, Zaccaria Giuseppe, La letteratura, vol. 4, Paravia Bruno Mondadori, Milano 2007;

  • Leopardi Giacomo, Canti, a cura di Niccolò Gallo e Cesare Garboli, Einaudi, Torino 1962;

  • Blasucci Luigi, Leopardi e i segnali dell’infinito, Il Mulino, Bologna 1985.

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