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Parliamo di... Infelix Dido (Vv. 68 - 73 Eneide, IV libro)

Pierre-Narcisse Guérin, "Enea e Didone", 1819



«Uritur infelix Dido totaque vagatur

Urbe furens, qualis coniecta cerva sagitta,

quam procul incautam nemora inter Cresia fixit

pastor agens telis liquitque volatile ferrum

nescius: illa fuga silvas saltusque peragrat

Dictaeos, haeret lateri letalis harundo».


È tra il 29 e il 19 E.C. che Virgilio, poeta vissuto nell’età dell’imperatore romano Augusto, scrive l’Eneide, poema epico in dodici libri che narra le vicende dell’eroe troiano Enea, progenitore di Romolo e capostipite della gens Iulia. È in particolare il Quarto libro a interessare il nostro discorso, ovvero la vicenda amorosa vissuta dalla regina fenicia.

«Arde l’infelice Didone», scrive Virgilio; infelice proprio come tante altre eroine della storia della letteratura antica - Medea, ad esempio, da cui l’impianto amoroso e l’approfondimento psicologico traggono spunto.

La storia, seppur raccontata interamente nel quarto libro, trova il suo inizio già nel Primo libro quando, giunto a Cartagine con i suoi compagni, Enea viene accolto dalla regina, che prepara in suo onore un banchetto. «Felice, ahimè, anche troppo felice, se soltanto le navi troiane non avessero toccato le nostre spiagge» (vv. 657-658), dirà Didone nel suo monologo finale. Le parole della regina, così piene di malinconia, fanno riferimento a una felicità passata, nonché alla gloria politica e sociale raggiunta. Ella, infatti, è innanzitutto una regina, fondatrice di una nuova città, Cartagine appunto. Didone - costretta ad abbandonare la sua patria a causa del fratello Pigmalione che, per impadronirsi delle sue ricchezze, le uccide il marito Sicheo - giunge insieme a un gruppo di esuli in terra africana.

La grandezza dei ricordi però non basta a curare la ferita d’amore che affligge l’anima della regina; questa, ordinando la costruzione di un rogo per bruciare gli oggetti di Enea, decide di uccidersi sul letto nuziale: il legame amore-morte, che permea l’intero libro, dunque, si evince proprio nei versi citati in apertura.


«Arde l’infelice Didone e vaga

furiosa per tutta la città, come una cerva colpita da una freccia,

che un pastore inseguendola da lontano, in mezzo ai boschi cretesi,

trafigge con i dardi, lasciandole nella carne il ferro

alato; la cerva fugge attraversando le selve e le balze

dittee; ma la freccia mortale resta infissa nel fianco».


Significativa risulta la similitudine di ispirazione omerica, utilizzata dal poeta: la passione amorosa tormenta e logora la regina proprio come la freccia conficcata nel fianco della cerva ferita. Didone, disperandosi all’interno della città - una città ormai priva del suo punto di riferimento -, cerca di trovare la pace per quella sua anima ferita da Enea. La figura retorica, dunque, che non si limita solo alla rappresentazione della regina, include anche l’amato che, come il pastore cretese, ferisce in modo mortale il cuore di Didone. Letalis harundo scrive il poeta; la freccia mortale, infatti, non identifica solamente la sofferenza amorosa provata da Didone che si strugge per questo sentimento privo di futuro, ma è anche un chiaro riferimento all’esito finale della vicenda. La regina, maledicendo Enea e tutta la sua stirpe (l’inimicizia politica che accomuna i due popoli - da cui sono scaturite le Guerre puniche - è attribuita a questo episodio epico), si suicida trafiggendosi con quella spada che l’eroe troiano le aveva donato.

«O spoglie, […]», esclamerà Didone prima di morire, «accogliete questa mia anima e liberatemi da questi affanni» (vv. 651-652).



Riferimenti bibliografici:

  • Gian Biagio Conte, Letteratura latina. Manuale storico dalle origini alla fine dell’impero romano, Le Monnier, Milano 1992;

  • Virgilio, Eneide, libro IV, a cura di Massimo Rossi, Carlo Signorelli Editore, Milano 1998;

  • Giovanna Garbarino, Lorenza Pasquariello, Veluti Flos; cultura e letteratura latina, testi, temi, lessico, Pearson, Milano - Torino 2012.

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