F. Mattei; Pidgin, 2021
«Ci abbracciamo e la mia pelle ispida gratta contro la sua, fresca e soffice. Ci addormentiamo ai piedi dell’olmo, con le radici che sbucano dal terreno e si incastrano tra le nostre vertebre.
Ci risvegliamo solo all’imbrunire, distanti e con indosso ognuna la propria pelle. Ci infiliamo i sandali prima di tornare verso casa.
Le nostre ombre lunghe che ci precedono sul prato, sulla terra, sul cemento.» (p. 7)
Nei diciassette racconti di Il giorno in cui diedi fuoco alla mia casa, Mattei ci porta nel vuoto esistenziale dei suoi personaggi. Il loro distacco, acuito dall’assenza di riferimenti temporali e spaziali e da voci narranti quasi sussurrate, volte all’essenziale, finisce per mettere in discussione l’idea della realtà stessa, creando spaesamento e annebbiamento. Il senso di vuoto, di sospensione o di mancanza, è rinforzato dal grande spazio dato alle malattie: non tanto alle cause di esse, quanto agli effetti che hanno sulle persone e sui loro atteggiamenti. Eppure, questa latente indifferenza è al tempo stesso quasi una via d’uscita, qualcosa di anestetizzante o comunque qualcosa in cui potersi rifugiare, come le sostanze stupefacenti o l’alcool, a cui molto spesso si fa riferimento.
In Croste la protagonista ha trovato un modo originale per metabolizzare i propri traumi: mangiare le croste delle proprie ferite. Questo gesto di autoconsumo e di autoconservazione è denso di numerosi significati simbolici: siamo in un contesto di forte disagio familiare: il padre è sparito, il fratello è in galera e le sorelle maggiori e la madre si disinteressano della figlia più piccola. Tuttavia, in qualche modo, questa situazione resta sempre al limite del collasso, senza mai implodere definitivamente. Una via d’uscita, o, forse, una mancata catarsi.
In Nessuno ha provato a riaccendere il fuoco siamo immersi in una scena fredda e quasi priva di contatto umano. Un ragazzo e una ragazza stanno guardando un film, lei si annoia molto e lui, nonostante l’abbia invitata per farle compagnia, è molto distaccato. Ad un certo punto va via la corrente. Nel cortile di fronte alcune persone accendono un fuoco e inizia una specie di festa, un ritrovo giovanile a cui i due protagonisti si recano. Fuori dalle convenzioni e dalla routine, il ragazzo e la ragazza sembrano trovare un nuovo e sincero incontro.
Un altro racconto di cui vorrei parlare è Smalto: questa volta siamo in una clinica, e mentre il medico interroga la protagonista, lei non fa altro che mettersi lo smalto sulle unghie, con precisione, ignorando costantemente le riflessioni del dottore che cercando di parlare con la paziente apre al lettore degli squarci sul passato di lei e sulla sua psiche. Nonostante l’indifferenza e l’alternarsi meccanico dei gesti alle domande, alla fine in questa storia sembra filtrare una debole luce di salvezza, una salvezza che nasce solo dall’attraversamento del passato.
Consigliato a… chi ama lo stile curato ed essenziale; chi ama lasciar parlare i gesti, i silenzi, i vuoti e i non detti; infine, chi vuole percepire quanto male può esserci nell’assenza di dolore e di empatia, quanto male si nasconde nell’indifferenza e nel rifiuto.
«Mi hanno tenuta sotto osservazione, mi hanno prescritto altre pillole, da prendere un po’ per volta, che mi impediscano di assumere le prime pillole tutte insieme. Ogni volta che butto giù devo sollevare la lingua, così che i dottori possano controllare che non li ho imbrogliati, e non posso andare in bagno a vomitare o a tagliarmi o a piangere. È tutta brava gente, vogliono il meglio per me e per le altre ragazze. È solo che io proprio non ci riesco.» (p. 130)
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