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Parliamo di… "Gli animali che amiamo" (Recensione)

Antoine Volodine; 66thand2nd, 2017


«La storia narra che s’era all’inizio di un’età di desolazione in cui i vassalli di Balbuziar si erano drasticamente ridotti e si ritrovavano ormai separati gli uni dagli altri da enormi distanze. Molti anni avrebbero potuto trascorrere prima che un mendicante o un ciambellano finissero per inciampare contro l’augusta spoglia del loro signore. […] Nulla di vivente e nessuno di morto o di cortigiano si muoveva più intorno a Balbuziar» (p. 25).


L’opera di Antoine Volodine si basa sul post-esotismo, un genere letterario teorizzato dallo stesso autore in tutta la sua carriera. Per un lettore non allenato, le intrarcane e le shaggås in cui il libro si articola possono sembrare dei pastiche arricchiti di virtuosismo fine a sé stesso, ma in realtà si tratta di un’operazione molto più raffinata.

Ci troviamo in un complesso universo letterario, una continua rottura di confini, dal mito al sogno, dal lirismo alla pazzia, un’esperienza letteraria e linguistica in cui non ci si può che sentire leggermente sospesi e al tempo stesso sconvolti.


L’insieme delle tecniche e degli espedienti utilizzati dall’autore elude continuamente l’oggetto della narrazione, per non far sentire il lettore al sicuro. L’esempio più calzante è la descrizione del corpo del maestoso Balbuziar, un re mitologico che vive sulla riva del mare: «Balbuziar sbatté le palpebre e volle scivolare giù dal suo giaciglio. Cercò di alzarsi, di staccare il proprio corpo dal materasso di varech ove si rincantucciava durante la notte, poi, visto che non ci riusciva, tentò di ripulirsi il muso con fare meditabondo, ricorrendo magari a una sola delle spazzole con cui terminavano le sue zampe anteriori, […]. Le spazzole stridettero, vibrarono, ma non raggiunsero la regale faccia» (p. 24).


Balbuziar è un essere immenso, eppure in grado di compiere amplessi con le proprie regine-sirene che vivono nel suo harem, ed è egli stesso a generare i propri eredi, per altro più per istinto che per volontà di procreare: «Dal piloro alle spalle, i dolori lo squassavano; dal rostro si spandeva un odore di linfa; e sotto le pudenda mitragliate senza sosta dal sole e dalla luna, non v’era ganglio che non avesse preso ad ammuffire. Vi siamo costretti, ripeté fra sé e sé, con voce lugubre quanto le sue fattezze. Ergo, figliamo!» (p. 30).


Balbuziar non è che uno dei personaggi della raccolta, insieme a elefanti senzienti, pirati, divinità marine, profeti-pesci, le già citate regine-sirene e due esseri umani, due donne. L’unica certezza che abbiamo di questo mondo è che si tratta di qualcosa di post-umano, qualcosa in cui le nostre idee di dialettica, razionalità e logica non hanno più alcun senso perché si sono estinte, insieme all’umanità che le aveva generate. Queste donne – descritte secondo i canoni dei sopravvissuti alla catastrofe – sono sole e animate unicamente dal desiderio (ma sarebbe meglio dire istinto) di riprodursi.


Infine, la lingua. Volodine fa sfoggio di altissime capacità retoriche, mescolando generi come il fiabesco e il mitologico. Spesso però incorriamo nell’ironia, usata come espediente per continuare a destabilizzare il lettore, per costringerlo ad allargare le maglie della propria rete cognitiva e poter vivere in un mondo che «proviene dall’altrove e incede verso l’altrove (in Volodine, Il post-esotismo in dieci lezioni, lezione undicesima, 66thand2nd, 2017), per usare la definizione che Volodine stesso dà di post-esotismo.


Consigliato a… chi ama abbandonarsi nelle pieghe del linguaggio e vivere molteplici esperienze in un’unica lettura; chi vuole vedere le categorie letterarie disorientarsi l’una nell’altra.


«Il re guardò Minesse: lei aveva occhi di un altro mondo, non aveva più un’insaziabile sete d’infinito, si era appena assopita, e sorrideva, i suoi gioielli sparsi per leghe tutt’intorno.

Lui continuò a lungo a contemplarla. Poi raccolse un lungo spillone d’oro che lei aveva smarrito e di nuovo la trafisse, questa volta al cuore, finché il muscolo cardiaco cedette e lei non emise più alcun gemito» (pp. 152-153).



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