Carl Fredrik Hill, Kyrkogården (Il Cimitero), 1877
«Siedon custodi de’ sepolcri e quando
Il tempo con sue fredde ale vi spazza
Fin le rovine, le Pimplèe fan lieti
Di lor canto i deserti, e l’armonia
Vince di mille secoli il silenzio»
(Vv. 230 - 234).
Considerando l’intero testo foscoliano, questi che ho citato sono i versi che più mi emozionano e contribuiscono, allo stesso tempo, a tener vivo un amore - quello per la letteratura - che temo possa, col tempo, spegnersi.
Lettori, siete ancora in tempo per chiudere la pagina e passare oltre; qualora decidiate, invece, di continuare la lettura, vi auguro buon viaggio e vi raccomando di non dimenticare le Pimplèe che ritorneranno proprio alla fine.
Dei sepolcri (1807) è un carme la cui scrittura è ispirata a una conversazione che il poeta, Ugo Foscolo, ha realizzato con l’amico Ippolito Pindemonte. L’oggetto del discorso è l’estensione in Italia del famoso editto napoleonico di Saint-Cloud (settembre 1806) che spostava la sepoltura dei defunti al di fuori della città.
«All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? […]»
(Vv. 1-3).
La cura della tomba, ombreggiata dai cipressi o confortata dal pianto dei propri cari, scrive Foscolo, può forse rendere la morte diversa?
Dinanzi alla morte, che è annullamento, una tomba non potrà certo compensare il defunto dei giorni che non vivrà più (vv. 3-15). Quando sopraggiunge la morte, la vita termina, non c’è più speranza e il tempo, dal canto suo, contribuisce a mutare tutto, avvolgendo ogni cosa nell’oblio. È questo che ci dice la ragione; eppure, continua il poeta, nonostante l’avvicinarsi della morte, l’uomo non ha forse l’impressione di poter sopravvivere ad essa? (vv. 23-25).
La ragione lascia il posto ad altro; il defunto, nonostante la morte, vive ancora (continua a vivere «sotterra»), nella mente di coloro che coltiveranno il suo ricordo. L’immortalità dunque potrà esserci solo se la terra sarà in grado di offrire al defunto «nel suo grembo materno ultimo asilo» (v. 35): solo se ci sarà sepoltura. Foscolo, rovesciando quanto scritto prima, afferma che sì, la cura della tomba (sia essa ombreggiata da cipressi) può rendere la morte più dolce. Morire sarà come rientrare in quella terra che, così come ci ha generati, ora torna ad accoglierci. La tomba, mantenendo vivo il ricordo del defunto, conferisce quell’immortalità propria delle divinità; come nell’antichità, in cui divenivano testimonianza delle glorie del passato, e altari per i figli che veneravano i loro padri divenuti ormai lari, divinità domestiche («Testimonianza a’ fasti eran le tombe, ed are a’ figli» (vv. 97-98).
Foscolo, attraverso questo carme, non vuole semplicemente mettere in rilievo una funzione affettiva o privata delle sepolture ma soprattutto una funzione civile e politica. Il sepolcro, infatti, diviene un esempio per i vivi; la memoria delle azioni compiute dai grandi uomini del passato, afferma il poeta, spinge l’uomo a compiere azioni altrettanto grandi, ricercando così quello stimolo volto al cambiamento; un cambiamento di cui il «bello italico regno» (v. 143), scrive in modo sarcastico Foscolo, necessita (l’Italia napoleonica, ormai in decadenza assoluta, vive dominata esclusivamente dal desiderio di denaro e potere).
Seguendo quest’idea Foscolo ricorda la memoria dei grandi uomini sepolti nella basilica di Santa Croce a Firenze. Citati quindi sono: Machiavelli, Michelangelo, che innalzò a Roma un «nuovo Olimpo» (v. 159), ovvero la cupola di S. Pietro; Galileo Galilei, che con i suoi studi, confermando le teorie di Copernico, aprì la strada a Newton; e poi Dante, «il Ghibellin fuggiasco» (v. 174), Petrarca, Vittorio Alfieri: «che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all’Italia, quindi trarrem gli auspici» (vv. 186-188).
È attraverso la poesia che il poeta può ricordare l’amore che questi uomini nutrivano per la patria; un amore che, rievocando anche gli eroi della guerra di Troia, lo stesso Foscolo sente, percepisce. Così come i poeti del passato, Omero ad esempio, anche lui si incarica di celebrare gli eroi della sua Italia ormai decaduta.
Distante dal pensiero dominante, lontano da una società che ha declassato il ruolo intellettuale dei poeti, Foscolo non può che scrivere rivolgendosi a tutti quei lettori futuri che vorranno leggerlo. Dinanzi a un passato cancellato dal tempo, a un presente in rovina, la poesia (le Muse sono anche dette Pimplèe) è l’unica a poter dar vita, attraverso il suo canto, a tutto ciò che è stato dimenticato - i vincitori, i vinti, le sofferenze, le sventure, i valori -; vincendo così il silenzio per mille secoli.
Riferimenti bibliografici:
Baldi Guido, Giusso Silvia, Rametti Mario, Zaccaria Giuseppe, Testi e storia della letteratura. L’età napoleonica e il Romanticismo, Volume D, Pearson, Milano 2011.
Casadei Alberto, Santagata Marco, Manuale di letteratura italiana medievale e moderna, editori Laterza, Roma 2007.
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