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Parliamo di... "Dall'inferno. Due reportage letterari" (Recensione)

Aggiornamento: 7 giu 2022

C. Argentina, O. Tosco; Minimum Fax, 2021


«Mi copro la faccia con la mano fottuta e stringo la borsa co' quella buona. Acre e tossica, una zaffata mi si sfalda e scatrama addosso. Sputo e dalla bocca mi esce una saliva a filamenti densi e a budella di gambero. Butto un occhio a orizzontarmi e mi fermo davanti al cartello non usare eccetera eccetera e la pioggia s’è risvegliata d'incanto» (p. 85)



Umè e Bestïn sono due diverse catabasi. Due viaggi nell’inferno italiano, rappresentato dalle due cicatrici di Taranto e Genova: l’ILVA e il Ponte Morandi. In Umè il narratore-protagonista vaga all’interno dello stabilimento durante la sua prima notte di affiancamento, mentre una pioggia violenta copre tutto. Il narratore è da solo alla ricerca di un Virgilio che dovrebbe innanzitutto insegnargli il lavoro, ma che non riesce a trovare. Durante questo lungo cammino a vuoto il protagonista incontra diversi personaggi, tutti pronti a raccontargli storie, tutti lesti nel mandarlo via, indifferenti al suo passaggio. Il labirinto è la storia dell’ILVA, la zona grigia, il mondo di dannati senza più Dio, senza più una logica originaria. Nessuno riesce a dare informazioni; più che un lavoro sembra una condanna, una maledizione.


Mentre il narratore di Umè si muove nella fabbrica-città senza una meta, in Bestïn, il protagonista Orazio Lobo è come il custode della città-intestino, quasi un enzima che cerca di mantenere in vita un organo che si sgretola. Questo silenzioso personaggio tiene in vita la città fragile di Genova “raccogliendo le parole”, annotando tutto sui taccuini che conserva con cura, quella cura maniacale e affettuosa di cui avrebbe bisogno la città. Quella cura che manca: e infatti Orazio assiste al crollo del Ponte, lo aveva quasi previsto. Una tragedia nazionale calata nel mondo individuale, nel mondo di un individuo solo e solitario, che aveva fatto del desiderio di salvare la città lo scopo della sua vita.

Genova e Taranto, entrambe città di mare e di acciaio, negli occhi e nelle bocche di due individui che trascorrono la loro esistenza nella tragedia, sono gli inferni del Paese, Penisola di ignavi.


Consigliato a… chi vuole riflettere sulle vicende del nostro presente attraverso uno sguardo dal basso, chi ama una lingua che è tutt’una con la realtà, chi non si accontenta della cronaca ufficiale, delle cerimonie e degli anniversari.


«È un posto che fa rimpiangere di non essere nati cani, o gatti, o comunque bestie con un naso migliore di quello che tocca agli esseri umani. Perché l'odore che si sente nell'aria, quel miscuglio in apparenza composto di spezie e roba buttata e detersivo, e cibo, e piscio, è chiaramente una copertura, un modo che ha trovato la città per celare un profumo, un gusto, che resiste immutato da secoli e secoli, e che è il gusto di qualsiasi porto degno di questo nome» (p. 173)




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