Tanto ritorneremo

Illustrazione di Anna Pesetti
Poggiavo sul bancone la tazzina vuota. Con il cucchiaino raccoglievo quel po’ di zucchero e caffè rimasto sul fondo e lo succhiavo. Tu sorridevi ogni volta, dicevi che era una cosa strana che avevi visto fare solo a me.
Adesso la saracinesca del bar di fronte casa dove andavamo a fare colazione è abbassata. Chiuso per ferie, ma molti dicono che non si sa se riaprirà.
Vicino, sul muro del palazzo, accanto alla saracinesca abbassata, una scritta lasciata dallo stencil di un gruppo ultras: Tanto ritorneremo.
Il ritorno promesso è quello della squadra della città nella massima divisione.
1 ago. Questo mese è iniziato così, un ago puntato nella pelle. La scritta arancione sul cruscotto della macchina aveva annunciato il suo arrivo.
Una cosa che mi viene proprio difficile sopportare della fine è il fatto che non avvisa.
E così tu non lo sai quando è l’ultima volta che prendi il caffè in un bar che ti piace così tanto che non vuoi farlo diventare un’abitudine. Ci vai e guardi il proprietario bestemmiare per le bollette, il Corriere dello Sport poggiato su un tavolino a ricordare quando in vacanza da bambina sfogliare il giornale era far finta di essere grandi.
Poi la volta dopo la saracinesca è abbassata. Chiuso.
Che se me l’avessero detto prima c’avrei prestato più attenzione al caffè, sapendo che era l’ultimo.
Così con le persone. L’ultima volta che mia nonna mi ha dato un bacio da lontano muovendo le dita in aria.
L’ultima volta che, tornando a casa, mi interrogavi su quel vino che avevi scelto tu e sulle note che ci sentivo e ti chiedevi come era possibile che non riuscissi a sentire i frutti rossi, poi poggiavi la testa sulla mia spalla mentre guidavo.
L’ultima volta che abbiamo ascoltato Dalla e tu mi chiedevi «Ma secondo te com’è una faccia da mambo?». Ridevamo e ci ricordavamo di quella sera che avevamo fatto scaricare la batteria della macchina per ascoltare Dalla. Erano le tre di notte, avevamo attraversato la città deserta a piedi per ritirarci. La retorica delle solite frasi che ci facevano ridere, dei soliti episodi da ricordare. A sentirli da fuori i discorsi di due persone innamorate sono un compendio di banalità nauseabonde. L’amore è una grammatica di episodi ricorrenti da rievocare, di frasi già dette, che servono a rinsaldare un patto, come le nostre dita che si cercavano. Alla fine si trovavano.
L’ultima volta che mi hai abbracciata, che mi hai detto «ci vediamo domani».
E poi quel domani non si è fatto trovare. L’ho cercato insieme alle dita, ma non c’erano più.
Ti era caduto un orecchino mentre scendevi dalla macchina per l’ultima volta, non te n’eri accorta. Lo avevo preso e messo lì, davanti al freno a mano, tra le monete da dare al venditore di fazzoletti al semaforo. Grazie, amica. Non te l’ho mai restituito. Quell’orecchino arrivava improvviso a pungermi il polpastrello mentre cercavo le chiavi di casa dopo una serata alcolica. Era come quella scritta arancione affacciata al cruscotto, due righe rosse sotto una frase tradotta dal greco al liceo. Errore grave.
Agosto passa lento. Annuncia i suoi giorni dal cruscotto della macchina. Tragitto casa-supermercato. Una busta di rucola già lavata, una vaschetta di mozzarelline.
Al reparto gelati resto un attimo immobile con l’aria fredda sulle guance, poi prendo la scatola di Liuk. Annuisco alla cassiera che dopo qualche giorno che mi vede qui mi chiede se è tutto ok. Agosto cambia cifre alla scritta arancione che serve a dirmi soltanto che tu non sei tornata.
Che stavolta non è come quando ti ho vista girare le spalle sotto la pioggia. Eravamo sempre in quel bar. Avevamo litigato, pioveva molto. Da dietro ti guardavo andar via di scatto offesa. Provavo ad aprire l’ombrello per andarmene anche io, ma si era inceppato. Rotto. Mi era uscita una bestemmia dai denti. Ti eri girata.
«Hai detto resta?»
Io ho annuito, non avevo il coraggio di dirti che avevo solo bestemmiato.
Sei tornata indietro e mi hai dato il bacio più bello dei secoli. Titoli di coda, sipario.
Provo a dirti resta anche adesso. Ripeto questa parola nel vuoto, provo a bestemmiare sotto voce. Non funziona più.
Tutto quello che cerchiamo è un punto. Il punto esatto in cui le cose iniziano a cambiare. L’anno zero del loro inesorabile processo di deterioramento. Molto spesso, quasi sempre, quel punto non esiste. Ma noi continuiamo a cercarlo, continuiamo a imbastire immaginari processi in cui esaminare una ad una le nostre colpe e poi alla fine assolverci.
Forse la cosa più difficile da sopportare è che da questo processo usciamo assolte entrambe. Non c’è quel punto. Semplicemente le cose sono cambiate un giorno alla volta, fino a quello in cui hai deciso che era meglio chiudere.
Da quel giorno non ci siamo viste né sentite, due mesi dopo ti ho incontrata per sbaglio alla presentazione di un libro. Avevi una camicetta a fiori, all’orecchio ti avevo fatto una battuta sullo scrittore, un cinquantenne triste con un dolcevita nero nonostante i quaranta gradi percepiti, e la tendenza a rimarcare volutamente e in maniera forzata termini dialettali. Avevi riso e quando ci eravamo salutate mi avevi detto che era stato bello vedersi. Non ci siamo promesse di farlo capitare di nuovo, sapevamo che non potevamo essere una di quelle coppie che restano in buoni rapporti.
Tanto ritorneremo. Guardo quella scritta rossa mentre mordo lo stecco di liquirizia del Liuk e mi sembra una promessa, l’unica promessa a cui appigliarsi. Agosto è una bocca di afa che ha divorato tutto. Provo ad afferrarne con le mani le mandibole per tenerla ancora aperta, per non far finire questo mese in un settembre in cui non tornerai.
Agosto ha fame e vuole tutto, ingoia la tua voce e il tuo odore, al punto che non lo so neanche se la playlist di ultime volte fissata nella memoria è reale o se queste ultime volte me le sto inventando io adesso. Magari quel giorno ero nervosa, non volevo neanche scendere. Scorrevo la home di Instagram. Abbiamo litigato o peggio ancora abbiamo parlato di cose inutili. Del cane di tuo cugino, di quella mia collega. E invece se lo avessi saputo che la fine ci aspettava dietro l’angolo, io quel caffè lo avrei fatto durare per sempre.
Con il cucchiaino avrei raccolto lo zucchero che restava sul fondo della tazzina.
Provo a farlo anche adesso che il bar è chiuso.