Suppellettili
di Apolae
Illustrazione di Ellepi Illustrations
Accesi lo stereo. Non che avessi qualcosa da fare, a parte aspettarla. Il salotto era pulito, perlomeno dignitoso. Mi ero dato da fare, cosa evidente, seppure nei miei ovvi limiti. Galleggiavo sull'idea che avrebbe aperto la blindata, con un giro secco sul nottolino difettoso, guardandosi subito intorno per vedere com'erano andate avanti le cose senza di lei. Una sua risata di cuore, stupita, Ciao, Entra che è freddo, Sì grazie ma hai fatto tutto da solo, Certo figurati una passeggiata, Ma dai non ci credo, Invece sì davvero così ti dico ce la siamo cavata alla grande, Buon per te sono contenta, Ti ringrazio, È bello essere tornata, Mi mancavi sai ti aiuto con la borsa, No grazie faccio io, Allora hai fame magari, Da lupi, Ti ho fatto lo sformato, Arrivo. Passavano un vecchio pezzo di Anita Baker su Capital, con un'intro tesa che allentava appena prima della strofa. Il timer del forno trillò asciutto e il display divenne verde. Baby decollava nell'inciso, sicura, missando la voce principale e i controcanti a intrecciarsi molli lungo la linea armonica. Schiacciai un pesciolino d'argento sbucato da una crepa dietro la credenza, fastidioso, l'avrei spazzato via più tardi. Poi il climax della traccia esitò, fino a viaggiare su due melodie distinte, via via sfumate e lontane. Fu un momento preciso, o meglio un lasso di tempo manifesto, in cui io e Rebecca ci slegammo. Nessuno strappo. L'immagine si annodava nella mia mente come uno spago grigio che si scioglie lento. La colsi soltanto quando il brano finì, lasciando spazio al rapido spot di una banca. Pareva infinita quella serata. Da ore pioveva, pioveva dopo mesi di siccità e l'acquazzone seguitava a deflagrare contro il vetro appannato della finestra. Faceva freddo coi termosifoni chiusi, andavano solo in cameretta, ché il gas costava una fortuna. Avevo bisogno di un diversivo, mi avrebbe fatto bene, però dovevo restare in casa perché lei sarebbe potuta tornare proprio durante una mia assenza. Intollerabile. E poi di là c'erano i gemelli nelle culle, alla signora Maria così tardi non le si poteva chiedere troppo, che già faceva molto durante il giorno, santa donna, a quattro euro l'ora prezzo di favore perché tanto, quando veniva, alla fine qualcosa nella dispensa trovava sempre, un po' di farina dell'olio d'oliva due mele mature, Le prenda signora le prenda, Non vorrei approfittare, Macché si figuri, Sa la pensione, Lo so eh lo so ma le prenda, Sicuro, Lei qui è a casa sua, Che gentile, A domani, Saluti dunque spariva col sacchetto sottobraccio attraverso l'androne del palazzo, coprendolo del suo scialle nero come avrebbe fatto con il bimbo che la cicogna infida non le portò mai. Senza contare che sarei dovuto rimanere nell'appartamento anche per controllare lo sformato, quasi pronto ma ancora in cottura, pochi minuti, quanto bastava a scaldare i cubetti di prosciutto interni, tagliati grossi per non bruciarli. Rebecca li adorava, erano quelli il tocco decisivo. Abbassai il volume della radio, guardandomi riflesso nello schermo nero della televisione. Volevo finire la rilettura del mio libro, un pretenzioso sgorbio giovanile ideato dopo il trenta a Letteratura Tedesca I, con la lode per giunta, quindi benedetto in qualche modo dai Goethe, dai Kafka, dagli Hesse. Pensavo di aver creato un testo degno di nota, pur buttato giù in fretta e senza riletture, poiché il puro talento e l’ispirazione andavano lasciati allo stato grezzo. Romanticamente. Era lì sul tavolino il mio capolavoro in sessantotto pagine di banalità svendute ai parenti, Dieci euro per te nove, Allora scrivi, Sì ci provo, Ma non lo regali alla zietta, Vorrei ma non posso, Hai da cambiare venti, No mi spiace, Aspetta che vedo, Certo sto qua, TONINO HAI MONETE C’È BIAGIO IL SUO LIBRO, APRI LA GIACCA PRENDI DA LÌ, Ecco qua saluta mamma, Va bene grazie, Ricordati di noi quando sei famoso, Ok, onde piazzare le trenta copie acquistate dall'Editore per obbligo contrattuale. La copertina mi guardava insolente, col suo layout palesemente copiato agli Einaudi ET, come una furbetta conscia di non poter essere punita. E io di meglio da fare non ne avevo. Ripresi la lettura dal segnalibro:
…solito una di quelle giornate di sole, con una brezza gentile ad accarezzare le foglie degli alberi ed i salici inchinarsi di fronte allo spettacolo dei raggi che s’infiltrarono tra le fronde per baciare macchie di cespugli verdeggianti e gruppetti di candidi gelsomini. Alcuni uccellini fischiavano a coppie condividendo lo stesso ramo. Noi sdraiati sul tappeto d’erba tiepida, abbracciata dalle nostre ombre intrecciate tra i fili d’erba di quella distesa sconfinata di verde. – Oggi, tesoro – lei proclamò tra un sorso e l’altro dalla sua bottiglietta di succo – sono così felice che sia finalmente primavera, tanto da potermi rotolare per mille volte su questo morbido manto e ridere a crepapelle come se avessi sei anni! –. Lo disse così, senza pensarci, mentre guardava una nuvola a forma di barchetta che, rapida, velava il sole per poi restituirlo agli altri nembi. Mi volsi verso sinistra e le risposi con un semplice sorriso, senza aprire bocca, per evitare di corrompere la sua fresca effervescenza con la pesantezza di una qualsiasi parola che, con ogni probabilità, sarebbe stata solo superflua. Quando si ridistese sull’ampia tovaglia da pic-nic a quadretti bianchi e rossi, con la testolina sorretta dalle mani incrociate dietro la nuca, un suo silenzio di pochi istanti mi turbò. Due nuvole sorvolarono per qualche secondo il suo volto imbronciato e, proprio in quell’istante, bisbigliò inarcando le sopracciglia: – A te non importa nulla del sole, del venticello tra gli alberi e degli uccelli, non è vero? – ed incalzò, senza concedermi il diritto di una qualsiasi replica – Tanto io me l'aspettavo, ed ho composto una piccola poesia proprio per questo momento –.Spiegò la poesiola da un bigliettino che aveva nello zaino, poi stette a guardarmi come un cucciolo di cerbiatto in attesa di nutrirsi dal mio palmo. – Beh. Meraviglioso! – fu l’unica cosa che riuscii a balbettare al termine del suo monologo, nell’alzarmi col gomito su un fianco e porgere la massima attenzione a ciò che desiderava leggermi. La sua poesia fu puerilmente stupenda. Un lavoro da artista dilettante, si sarebbe detto, così pieno di ingenua tenerezza. Appena concluso il declamare dei suoi versi, un raggio le baciò la guancia levigata, tinta di rosso rubino a causa di una vergogna recondita. Poi la brezza tiepida le carezzò i lunghi capelli castani, mentre i suoi occhi fissavano i miei, pieni del nero delle nostre pupille. Sorrisi a bocca aperta, stavolta, senza alcun vigliacco timore di sorta. – Sai – le dissi – per me, con te, è sempre Primavera…
L’ultimo trillo del forno. Ora di tirare fuori lo sformato. Rebecca era uscita per fare la spesa, ancora non era tornata, ma sarebbe rincasata presto. Forse prima che quella pioggia incessante allagasse le strade della città, prima che i gemelli si svegliassero da quel sonno leggero che in qualche modo riusciva a reggere, prima che lo sformato si freddasse. Il vento fuori aveva iniziato a scuotere gli avvolgibili, soprattutto quello del bagno che montava un listello sconnesso e picchiettava sull'infisso. Il metronomo sordo della mia attesa. Da settimane calpestavo i nostri ottanta metri quadri di mattonelle come la guida di un museo deserto, passando in rassegna i vari oggetti impolverati su mobili e mensole, ognuno dei quali custodiva un episodio scartato dalla nostra memoria:
i nostri libri (teoria vs pratica);
delle ragnatele sulla libreria (lo sgombero in cantina da nonna);
un'icona della Sacra Famiglia (messe svogliate al sabato pomeriggio);
stampe di nature morte (eredità di una prozia mai conosciuta);
una rosa del deserto (bomboniera chic del matrimonio di Carla);
il cavo del decoder (film, tisana, plaid e coccole);
uno scotch Single Malt e i suoi bicchierini (prosit);
l’argenteria buona (lavare a mano, mai lavastoviglie);
un portacenere di Limoges (viaggio di lavoro improvviso);
qualche ninnolo che avevo dimenticato (gingilli riempivuoto);
una gigantografia di noi al mare (l'amore al buio sul lettino);
dei cremini nel portadolci (dopamina a morsi);
le chiavi della Punto (casa-lavoro-supermercato);
un ciuccio sporco (rigurgiti sulla spalla);
degli orecchini di quarzo (smessi e lasciati in vetrinetta);
l'orologio (didascalia "tempus fugit");
uno specchietto ossidato (capriccio dall'antiquario);
sette matrioske (sei strati e il loro seme);
un'armonica in C (troppo presto riposta nella custodia);
due ciuffetti di confetti (gioie insostenibili);
una chiave portafortuna (come se potesse bastare);
la polvere su un ripiano troppo alto.
Mi ritrovai in una situazione del genere poco a poco, tanto da capirla solo scivolato verso il fondo. Era cominciata spendendo le ferie residue a lavoro. Poi dovetti dichiararmi malato finché la visita fiscale accertò il mio buono stato di salute. Continuai a presidiare la casa, perché Rebecca aveva dimenticato i documenti nello svuotatasche e prima o poi sarebbe rientrata. Diedi le dimissioni e rimasi ad attenderla con i piccoli. Fissavo la tv, tenendo d'occhio il cellulare. Pappe e sonagli. Ce la saremmo cavata, tenevo duro, la signora Maria mi stava dando una mano. Un po’ di musica, libri e giornali. Intanto aspettavo Rebecca di mattina, di pomeriggio, di sera. A volte mi affacciavo dal balcone e chiedevo ai passanti. Lei però non tornava.
Non torna ancora.