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Sete felina

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Illustrazione di Ellepi Illustrations

Er Condor mi aveva trovato come al solito oberato di gustose frivolezze. La gattina di qualche sera prima mi riveniva sotto e dal computer sembrava ancora più piccata e desiderosa di un nuovo trattamento. 

Il telefono berciò.

«Che vuoi.»

«Com’è st’acidume?»

«Dai che c’ho da fa’.»

«Allora niente, rosicherai poi.»

Er Condor riattaccò e rimasi come uno scemo, in conflitto se risentirmi o essere sollevato, con quella in sottofondo che cicaleggiava su quanto fossi stato un animale a non farmi più sentire. Quanto mi sfrugugliava! Subito mi morsi le mani, le nuove del Condor non si ignorano mai, lui vede e sente tutto, un aliante sulla città. Che sarà successo?

«Guarda, mi dispiace davvero. Se vuoi stasera ci vediamo e parliamo ancora, ti va?» la colpii in contropiede. Accennò a un sorriso e la cosa finì lì. Neanche mi aveva chiesto quando o dove. Forse si era cotta, ahilei.

«Pronto, Condor!»

«Ce ne hai messo di tempo.»

«Cinque minuti, sei mica Fraccazzo!»

«Oh, metto giù…»

«Fermo, fermo! Dimmi tutto.»

«Al bar der Demone c’è uno che non si muove da tre giorni.»

«Tutto qui?»

«Aspetta… sono tre giorni che beve a cannone. Finisce una bira, ne chiede un’altra, passano dieci minuti, passa a quella dopo… da tre giorni. Senza mai alzarsi.»

«Non si alza perché l’ha ammazzato Er Demone, in verità è impagliato.»

«No, no, è vivo. Paga pure a ogni bira»

«E quanti spicci c’ha?»

«Non è questo il punto.»

«Arriva al punto.»

«Non si muove e beve da tre giorni. Non c’arivi da solo?»

«Gli avrà allagato la veranda di piscio; perché Er Demone non l’ha ancora ammazzato?»

«Perché non piscia e paga pure.»

«Avrà una panza enorme.»

«Bingo. Ascoltame: va un po’ lì.»

La cosa mi stuzzicava. Mentre mi infilavo le scarpe, mi diedi sette volte del cojone per aver creduto ar Condor: era un gigantesco cantastorie, non sapevi mai se fosse serio o stesse prendendo per il culo mezzo mondo. Strano tizio, Er Condor. Era lì, all’inizio del parchetto di fronte al bar, che mi aspettava, con la sua aria da girovago e gli occhiali da sole gialli. La pelata rossa risplendeva sotto al sole, tutto di nero col colletto della polo bianco. Mi sembrava molto soddisfatto.

«Io lo so che tanto m’hai perculato un’altra volta.»

«Nossignore. Guarda.»

E mi indicò una strana palla sulla veranda, giallognola, che sembrava stare su una sedia.

«Ma che è?!»

«Te l’avevo detto che dovevi veni’.»

«Ma come fa a esse vivo?»

«Ma che ne so, guarda che roba! Pare uno Zeppelin!»

«Impossibile! Ma parla?»

«Nessuno c’ha provato.»

«Andiamo?»

«Vuoi parla’ co’n alambicco co’ e zampe?»

«Dici che scalcia?»

Mi avviai: attraversai la strada deserta del primo pomeriggio, su per i gradini della veranda del Bar der Demone. Quella cosa odorava di erba acida da far schifo, che poi è birra lasciata una giornata al sole. La guardavo e non riuscivo a togliere gli occhi da quella panza immensa, giallognola come piscio, che ondeggiava dall’interno, una lampada lava, ipnotica, orrendamente irresistibile. La testa di un uomo sbucava da quella panza, gonfia, un cocomero di carne e pelo ispido. Dava una sorsata da una bottiglia grande di birra, riuscivo a vedere delle bollicine che salivano sulla pelle tesa. Corsi via senza poter resistere un secondo in più. Er Condor mi guardava con un sorriso malevolo sotto il naso adunco.

«Ma che cazzo te ridi?»

«Tranquillo, manco Er Demone è riuscito a parlarci.»

E ci separammo. Tornai a casa mia, era il periodo delle ferie, avevo poco da fare, sarei partito tre giorni dopo, avevo fretta di far niente. Mi misi a cercare sul computer qualche serie da spararmi in quelle ore languide di arsura. Cinque pagine aperte, cercari qualcosa da cacciare giù per il gargarozzo, almeno per ristorarmi un poco. Mi chiamò la tipa. Risposi che neanche mi ero accorto di aver finito la birra. L’avevo aperta? 

«Sì, dimmi,» trafficavo per rimpolpare di elisir di luppolo il frigorifero.

«Non mi hai detto a che ora, nemmeno dove,» miagolò.

«Ah, sì certo… ma se venissi qui da me?»

«Avevo voglia di uscire per parlare. Non sono come pensi.»

«Non mi è sembrato l’altra sera.»

«Senti, non ti permetto di dirmi che sono una zoccola.»

«C’hai pensato da sola.»

«Vaffanculo, sei proprio uno stronzo.»

La gattina aveva soffiato. Armeggiavo con la terza birra. Due bottiglie vuote troneggiavano sul lavabo. Le avevo davvero sgargarozzate? Le serie non mi appassionavano, optai per la diciassettesima visione di Romanzo Criminale. Una bottiglia d’acqua si smaterializzò giù per la gola, uggiolai di soddisfazione. Doveva essere davvero così caldo, il corpo non mente. Mi resi conto di avere un problema quando finita l’acqua le bottiglie di birra le tiravo giù ancora calde. Alzai il telefono.

«A Condor, quella palla de bira sta ancora lì?»

Er Condor rise «Sì, sta lì.»

«Bene.»

«Fammi indovinare: sei passato alla parrocchia sua?»

«E tu che ne sai?»

«Pure Er Cefalo ha fatto la fine tua; e m’hanno chiamato Er Pialla, Er Cocco e O Sguercio. Me fate ride»

«Fatte trova’ al parchetto»

«Io qui sto. Vedo tutto e sento tutto»

«Ma vattela a pia’nsaccoccia a Condor»

Di corsa arrivai al parchetto: Er Condor stava dove l’avevo lasciato.

«Tu sai niente?»

«Io so tutto.»

«Nun fa lo stronzo.»

«Potrei offendermi.»

«Tu? Puah, t’ho chiamato per nome.»

«Vabbè… funziona così, chi lo guarda da vicino gli piglia la stessa cosa che ha preso a lui. Para para.»

«Ma starai a scherza’.»

«Beh, dalla panza che hai fatto, non me sembra.»

«A Condor, io non ce vojo mori’ de ‘sta roba.»

«Quello sta tanto bene.»

«Ma falla finita.»

«Parlace. Senti che te dice.»

Facevo fatica a parlare, sentivo la gola arsa, una grattugia sull’asfalto d’agosto. Andai prima dar Demone. Lo trovai attaccato alla spina del banco. La panza gli si era incastrata tra cassa e bancone, un gavettone informe che brillava sotto le lucette basse del bar. Con la mano libera mi fece un boccale da due pinte e trangugiandolo mi avvicinai alla palla sulla veranda.

«Puoi parlare?»

«Adesso sì.»

«Perché, prima no?»

«Non con gente che non beve.»

«Mai fidarsi degli astemi.»

«Esatto, fratello.»

«Com’è che stai così?»

«Io sto una favola; e te?»

«Sei sicuro? Me pare che stai pe’ scoppia’.»

«Devi guarda’ sotto la superficie delle cose.»

«Non c’è che bira.»

«È la sostanza di tutto. L’Europa c’ha salvato un continente per cinquecento anni.»

«La vuoi inondare?»

«Tempo al tempo, tempo al tempo… e tu mi darai una mano. Salute»

E buttammo giù quanto ancora ci rimaneva. La gola mi pungolava da far schifo, facemmo un secondo giro; e un terzo; e un quarto; e via così non so quanto.

«Ricorda: mai trattare male una donna»

«Perché me lo dici?»

«Perché poi passi le pene dell’inferno e non te resta che beve.»

«Mi hai detto molto di te.»

«Dico molto di molti.»

«Dovrò farmi perdonare.»

«Non c’è perdono con le gattine. C’è solo pena, la più terribile e rovinosa: graffiano da spavento. Brinda compa’!»

E rise tetramente, come se mi avesse sputato in faccia il fatto che, naufraghi in mezzo al Pacifico, ci saremmo riposati nel ventre di uno squalo. La mia panza si era gonfiata a dismisura, da seduto lievitava ancora, inseguendo quella del mio hermano de cerveza. Allora tra le risa funebri e la mia strizza che si faceva largo piombò su di me Er Condor e con gli occhi rossi di sangue cominciò ad affondarmi il naso adunco e affilato nella panza, gridando e strepitando

«Condor, che cazzo fai?! Vuoi la mia bira?»

«Io so Er Condor, non bevo quella roba.»

«Tu vai a gin e centerbe!»

«Er Condor vola alto, è abituato all’aria fina, non è come voi masticasorci.»

«Ti dai del lei?»

«Io faccio quer cazzo che me pare»

«Mi pare giusto» e continuò, berciando risa, a bucarmi la panza, un fiume di bira giù per la veranda, le mie budella marinate dappertutto, l’hermano de cerveza che bubolava un verre à la main, Er Demone che rotolava verso di noi bofonchiando «O dovevo spanza’ io!»

Mi risvegliai sudato fradicio che albeggiava appena. La gola mi doleva da impazzire. Accesi il computer: allerta meteo, terza settimana sopra i 40°; Gattina: rispondimi o da me non la vedi più.

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