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Nikola

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Illustrazione di Ellepi Illustrations

         Ci incontravamo al parco. Cominciavo ad aspettarlo già prima del tramonto, seduta su uno dei rami che circondavano la nostra panchina. Ancor prima di vederlo, alto e magro sul viottolo, era l’aria a dirmi che stava arrivando. La sentivo cambiare, pervasa dalla sua personale elettricità. Aspettavo fosse seduto prima di zampettare su di lui per salutarlo. Lui sollevava i baffi in un sorriso. Mi posavo dunque sulla sua spalla, tubavo al suo orecchio la mia felicità, aspettando che reclinasse la testa. Allora, per un istante, sentivo il contatto morbido dei suoi capelli. Scendevo poi sulla panchina, prendevo posto al suo fianco. Fissavo i miei occhietti sui movimenti che le sue mani compivano per slegare il sacchetto di tela che sempre portava con sé nel parco. Sapevo che il primo pugno di semi sarebbe stato per me. Il resto lo spargeva a terra, agli altri piccioni accorsi a circondare le sue gambe. Mentre becchettavamo, lo ascoltavamo raccontarci delle storie. Ne raccontava tante, a tutti, ma a me di più. Me ne raccontava diverse quando mi portava in albergo. Lassù, nella sua stanza dalla finestra sempre aperta, mi teneva per un po’ tra le mani, mi accarezzava la testa, la nuca, la schiena con le sue dita leggere che mi facevano sentire bella. Lui diceva che lo ero, che gli piaceva il mio biancore con quelle punte finali di grigio. Mi amava, me lo ripeteva sempre. Forse pensava che avessi bisogno di quelle parole, ma a me bastavano le sue carezze. Poi iniziava a raccontare e spesso mi parlava di lui.

        Era nato di notte a Smiljan, vicino alla frontiera militare dell’Impero austro-ungarico, durante una tempesta estiva, mentre scariche elettriche riempivano il cielo. Un lampo accompagnò il suo primo pianto. È figlio della tempesta, disse l’ostetrica. Della luce, corresse sua madre. Da ragazzo era stato in tanti posti. Escursioni mentali, diceva lui, che lo impegnavano giorno e notte. Voleva superare i limiti del piccolo mondo in cui si trovava. Fu così che iniziò a viaggiare. Mi descrisse paesi in cui le case avevano tetti formati da intrichi di piante. Mi fece smarrire tra città labirintiche in cui bastava voltare un angolo e niente era uguale alle parole di prima. Mi portò sulle nuvole, là dove neanche io sono mai riuscita ad arrivare, e in sua compagnia visitai gli arcipelaghi mobili che si aggregavano e si scomponevano, sospinti dai capricci dei venti, e i palazzi che si ergevano lassù. Le sue parole chiare e nitide mi condussero in tutti i luoghi che lui aveva visitato molti anni prima.

        Quando iniziava quei racconti mi poggiava con delicatezza sul tavolo, si metteva su una sedia di fronte a me e mi chiedeva di guardarlo negli occhi. Se compare qualcosa qua, all’interno della pupilla, e si portava sempre un dito all’altezza dell’occhio a indicarmi il punto, fammelo sapere subito, mi diceva. Accadde solo una volta. Fu mentre stava descrivendo il Paese in cui tutto era composto di luce. Ogni essere animato, ogni costruzione, ogni oggetto aveva la sua luce personale, ognuna di intensità diversa. Proprio quella differente intensità rendeva  possibile distinguere una cosa dall’altra. E mentre mi descriveva le strade, le case, le persone, vidi il suo pensiero all’interno della pupilla e, sul fondo del suo occhio, apparve quello che non stava ancora dicendo, ma già pensando, la sua figura luminosa che si muoveva in quel mondo. Iniziai a tubare per farglielo capire. Si interruppe per chiedermi se lo avevo visto davvero e quando glielo confermai, sorrise. Ogni immagine che si forma nel pensiero produce, attraverso un’azione riflessa, un’immagine corrispondente sulla retina, mi disse. Serviva soltanto lo strumento adatto: un giorno avrebbe inventato la macchina per fotografare il pensiero, ne era certo.

 

        Diverse volte percorse i limiti oltre cui si nasconde ciò che agli esseri umani fa più paura. Una dozzina di volte fu sul punto di annegare. Un giorno venne quasi bollito in una vasca di latte caldo. Per poco non mancò di essere cremato e una volta restò sepolto per una notte intera in una vecchia cappella su una montagna inaccessibile. Mi disse che era stata un’esperienza terrificante. Lo stesso terrore che gli procurava l’idea che il padre aveva del suo futuro: fare di lui un sacerdote. Ma per fortuna arrivò il colera. Accadde nel periodo in cui era stato mandato a studiare al Real Gymnasium di Carlstadt, dove viveva una delle sue zie. In quella regione bassa e paludosa, fu costantemente ammalato di malaria. E affamato. Come Tantalo, mi diceva. La zia aveva deciso che un essere così debole e delicato andasse nutrito come un canarino. Mi descriveva le striscioline di prosciutto che trovava nel piatto, tanto sottili che i disegni blu che decoravano il fondo non scomparivano, ma assumevano piuttosto una sfumatura violacea. Finito l’anno scolastico sarebbe dovuto tornare a Gospić, dove viveva adesso la sua famiglia. Ma poco prima della partenza ricevette una strana lettera dal padre che lo pregava di raggiungerlo in una regione lontana per partecipare a una battuta di caccia. Restò sorpreso, mi disse che il padre aveva sempre disprezzato quel tipo di attività. E fu proprio là, in quella zona remota, che contrasse il colera. Restò per giorni e notti sul limite. Una sera in cui tutti erano convinti che lo avrebbe ormai attraversato, vide il padre entrare nella sua stanza e sedersi accanto a lui, sul letto. Non seppe come, ma trovò la forza per mormorare che, se solo il padre avesse promesso di fargli studiare ingegneria, forse sarebbe riuscito a guarire.

        Talvolta ai racconti sostituiva la descrizione delle sue invenzioni. Restavano all’interno della sua mente per settimane o mesi, alcune addirittura per anni. Là dentro le montava, le provava, le smontava per sostituire i pezzi difettosi, tornava a ricomporle, risolveva i problemi che nascevano dal loro uso. Solo dopo, quando era tutto pronto, le trasportava nel mondo fisico, quello a cui appartenevo anche io. Cercava di farmele vedere nello stesso modo in cui mi mostrava i paesi immaginari, ma mi perdevo tra la rappresentazione di un motore alternato a induzione e quella di un aereo a decollo verticale, tra un teleautoma e un trasformatore risonante, incapace, io piccione, di comprendere.

        Spesso, la notte, restavo a dormire da lui. Andavo sul comodino accanto al letto e nascondevo la testa sotto una delle mie ali dalle punte grigie. Lui dormiva poco e di un sonno agitato. Mi svegliavano i suoi incubi in cui si mischiavano un cavallo e una cantina. Lo sentivo ripetere che non era stato lui, eppure ignorai sempre quale fosse l’accusa perché di questo non volle raccontarmi mai. Ma soffriva, me lo diceva l’aria attorno. La mattina uscivamo entrambi, lui dalla porta della stanza, io da quella finestra sempre aperta. Stava fuori tutto il giorno, nel laboratorio dove costruiva le sue invenzioni. Io volavo per la città, ma ogni tanto tornavo in quella stanza d’albergo a cercare i semi che lasciava sparsi tra i mobili. Poi, prima del tramonto, andavo al parco a incontrarlo.

        Un pomeriggio, non mi trovò. Nonostante sentissi il suo richiamo, non ebbi la forza di andare al parco. Solo a sera riuscii a vincere la sofferenza che ogni battito d’ali mi procurava e volai dentro la sua stanza. Ero stanca. C’era qualcosa che non andava in me, se ne accorse anche lui. Mi prese tra le mani e iniziò ad accarezzarmi, come faceva sempre, e sentii la sua voce caricarsi di una tristezza che non avevo mai conosciuto. Mi sembrò di stare sul bordo di un cornicione quando lo sentii dire che dai miei occhi proveniva una luce più intensa di tutte quelle che era mai riuscito a creare all’interno del suo laboratorio. Quelle furono le ultime parole che ascoltai da Nikola per lungo tempo.​​​

***

       Abbiamo dovuto aspettare, ma siamo di nuovo insieme. Ci troviamo all’interno di un palazzo sconfinato. Mentre io resto tra le sue mani che si muovono con delicatezza su di me, lui sale e scende i piani di questo edificio che sembra espandersi a ogni passo. Ogni tanto incrocia qualche altro essere in cammino come noi, ma non si ferma mai a parlare con loro, continua ad avanzare alla ricerca dei confini e le storie che racconta sono solo per me. E continua a dirmi che mi ama, anche se, per via delle sue carezze, le mie piume sono ormai diventate nere.

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