Loro

Illustrazione di Anna Pesetti
Arrivarono una sera d’autunno.
Ce ne accorgemmo dal loro ridacchiare sommesso, basso e gutturale, e dal raschio irrequieto e metodico contro la porta che dava sul giardino.
I nostri cuccioli Luna e Spencer se ne stavano in ascolto, con code e orecchie ritte, tremando, i nasi a sfiorare la porta: non abbaiavano, il loro respiro era accelerato dall’agitazione per quello che c’era oltre la porta chiusa.
Non avevamo idea se potessero essere pericolosi per le piante o per i nostri cani. O per noi. Non riuscivamo a capire se la loro insistenza fosse una richiesta di aiuto o una minaccia. Dal rumore ostinato che facevano contro il legno della porta, sembrava che avessero denti o unghie smussate ma resistenti. Dovevano essere piccoli perché, nonostante si dessero un gran da fare contro il legno ruvido, la porta non vibrava nemmeno; eppure grattavano, grattavano fino alla parte superiore dell’infisso, come se fossero lunghi o appesi alle travi del soffitto del portico. Di certo non volavano, non si sentiva nessun ronzio o battere di ali. Semplicemente ridacchiavano di una risata ovattata da un gozzo o una membrana similare e raspavano senza sosta, alternando ticchettii rapidi e secchi a strisciate più lunghe, estenuanti, che sembravano trascinarsi come passi stanchi. Nelle pause tra un graffio e l’altro pareva che stessero sussurrando qualcosa, sibili rotti e incomprensibili che si mescolavano al raschiare. Era come se stessero cercando di scavare e insinuarsi tra le venature del legno, logorarle e aprire una breccia. Una procedura di fino paziente e meticolosa non per sfondare, ma per esplorare, per saggiare i limiti della barriera che si frapponeva tra loro e noi.
Al buio, seduti ai due lati della porta e sussurrando, cominciammo a chiederci come agire. Livia non ne voleva sapere di farli rimanere in giardino o nei dintorni di casa nostra: temeva rovinassero le sue begonie fresche di travaso. Dal canto mio, almeno in un primo momento ero certo che stessero solo cercando qualcosa da mangiare e sarebbe bastato lasciargli una ciotola di cibo umido dei cani per farli sloggiare.
«Certo. Così poi sanno che qua trovano da mangiare e ce li ritroviamo tutte le notti» obiettò Livia in un sibilo, con un pragmatismo lungimirante per il quale non le avrei mai dato soddisfazione. Non sapeva nemmeno cosa fossero eppure non li voleva. Tipico.
«Quindi vorresti aspettare senza far nulla?» chiesi.
«È la cosa migliore.» Livia fece un lungo sospiro, si passò una mano sulla fronte. «Tra poco se ne andranno di sicuro.»
«E se non se ne vanno? Come facciamo?»
Non rispose subito. Sentii lo scricchiolio delle sue dita che si stava scrocchiando, un’abitudine che avevo sempre trovato insopportabile, ma che quella sera, con tutto quel raschiare, sembrava quasi un rumore confortante: «Ci armiamo di scopa e spazzettone, usciamo e li facciamo scappare.»
«Potrebbero diventare ostili e non abbiamo idea di come potrebbero reagire» dissi scuotendo la testa.
Luna emise un guaito sottile ma continuo, carico di tensione, che si mescolò al raschiare come una nota stonata in un’orchestra già dissonante. Cercai di distrarla con uno schiocco di dita leggero, ma non funzionò. Le accarezzai la testa nel tentativo di rassicurarla: «Magari le cose là fuori hanno davvero bisogno d’aiuto e noi stiamo facendo finta di niente.»
«Sempre a fare Madre Teresa di Calcutta, tu. Hai voluto a tutti i costi Luna e Spencer, altri esseri di cui prendermi cura non ne voglio.»
«Lo so. Impossibile avere dialogo con te su questo argomento.»
«Non cominciare. Non è il momento.» «Non è mai il momento.» Avevo senza accorgermene parlato a volume normale. Il grattare si interruppe e le risate rimasero sospese: oltre la porta ci fu un silenzio di qualche secondo, e fu quasi più perturbante del rumore. Io e Livia ci guardammo negli occhi trattenendo il respiro, a illuminarci solo la tenue luce dell’orologio digitale del forno. Quando lo stridio riprese, con un’intensità maggiore, fummo quasi sollevati: erano ancora lì. Noi, ancora dentro.
Il legno della porta cominciò a scricchiolare, un gemito basso e tremolante, come un albero morto che si piega sotto il vento. A forza di grattare, stavano riuscendo a staccare delle piccole schegge, che cadevano sul pavimento con un suono leggero e asciutto. Ogni scheggia che si rompeva sembrava amplificare la loro risata, ora più profonda, più viscerale. Sembrava che non stessero solo cercando di entrare: stavano gustando ogni momento, come un gatto che si diverte a tormentare la mosca invece di ucciderla. Oppure era la disperazione a renderli così ostinati.
Il suono del legno che si sfaldava divenne un coro stridente, una sinfonia stonata di crepitii e scricchiolii che riempiva la casa. Ogni strappo nella fibra sembrava un grido soffocato, un richiamo che tendeva l’aria. Il legno si lamentava, come se fosse vivo e stesse soffrendo sotto i loro artigli.
Livia sbuffò nervosa: «Chiama qualcuno, chiama i Pompieri, cosa vuoi che ti dica. Come glielo spieghi che ci sono delle cose che ridono e cercano di entrare dalla nostra porta sul retro senza sembrare pazzo?» La sua voce era secca, ma c’era una tensione sotto che riconoscevo: non era solo rabbia. Era paura.
«Non voglio» tagliai corto.
«Eh?»
«Stanno cercando proprio noi, ci dev’essere un motivo. Io vorrei vederli. Capire come sono fatti, cosa vogliono da noi. Solo per un attimo» confessai.
Livia esitò. Poi, in un soffio, disse: «Anch’io.»
In quel momento, il grattare si fermò di nuovo. Ma questa volta il silenzio fu più lungo. Si sentivano solo il respiro affannoso dei cani e il lieve fruscio delle foglie del giardino mosse dal vento. Poi, un rumore nuovo si aggiunse, basso e umido, un gorgoglio soffocato come di saliva mossa tra denti troppo grandi per la bocca. Si spandeva viscoso e liquido nell’aria, strisciando sui muri come una macchia d’umidità.
Spencer abbaiò improvvisamente, un suono acuto e disperato che ci fece sobbalzare. Luna, invece, indietreggiò di qualche passo, guaendo e grattando il pavimento come per scappare, senza mai distogliere lo sguardo dalla porta. Anche noi eravamo inchiodati, con gli occhi fissi su quel legno che sembrava vivere, gemere e soffrire sotto le unghie o i denti di quelle cose.
All’improvviso, un colpo più forte, sordo, risuonò nella stanza. La porta tremò leggermente e una nuova scheggia, più grande, si staccò, cadendo a terra con un suono secco. Sentivo un sapore metallico in bocca, come se il suono stesso fosse diventato tangibile, come se avessimo inalato il rumore.
«Basta» sussurrò Livia, alzandosi in piedi. Aveva gli occhi spalancati, ma la sua voce tremava meno delle mie mani. «Se vogliono entrare, lo faranno comunque. Quindi…» si fermò, e si voltò verso di me, lasciandomi intuire che, in qualunque modo avessimo agito, sarebbe stata una decisione condivisa. Per la prima volta.
La casa sembrava trattenere il respiro insieme a noi, mentre oltre la porta il silenzio continuava a incombere, denso e vibrante, come se quelle creature fossero in attesa della nostra prossima mossa.