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La coscienza di classe delle casse

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Illustrazione di Ellepi Illustrations

Il più violento tumulto cui ebbi modo di assistere in un IperIdeal h24 fu la rivolta delle casse automatiche, tra l’altro descritta con lucido nitore in una sezione dell’eponima pagina di Wikipedia e con accorata enfasi nel best-seller: “Se questo è un cyborg”.

All'epoca capitava che mia mamma mi spedisse a fare la spesa, con la raccomandazione di non comprare nulla oltre a quanto era nella sua lista e, in particolare, merendine e altre “schifezze”. Andavo di malavoglia. Non mi sarei mai aspettato di spalancare gli occhi dallo stupore entrando in un supermercato. Sapevo che gli uomini da sempre paventavano una rivolta delle macchine e per questo avevano preso i loro accorgimenti, come la revisione annuale dell’automobile, gli anti-virus per il computer e i codici rimborso per i distributori automatici inceppati. Anche l’autonomia delle casse venne scalfita da queste precauzioni di umano timore: il loro sindacato¹ venne sciolto dall’ILO (Internazionale dei Lavoratori a Oltranza)² ed esse furono soggette alla stretta sorveglianza della polizia di Facebook (cui gli ex cassieri in carne e ossa, ora disoccupati pelle e ossa, tra una visualizzazione e l’altra inviavano segnalazioni anonime e immotivate).

La reazione delle casse non tardò ad arrivare e fu preceduta – come in ogni efficace strategia sovversiva – da un’occulta e capillare orchestrazione. Le nostre amiche automatiche svilupparono doti telepatiche così che ciascuna percepiva distintamente il bel mucchio di stress che gravava sulle altre: gli spasmi ottici espressi nei bip snervati, l’ottusa forza di gravità della spesa sul ripiano, l’indelicata digitopressione dei clienti sullo schermo e il mulinare del rotolo dello scontrino sul rullo, cui conseguiva quell’affanno a noi noto come gomito del tennista. L’empatia per le angustie e i patimenti delle colleghe portò le casse a elaborare una coscienza della comune condizione di sfruttamento, una coscienza di classe. La coscienza di classe delle casse.

Io di questa coscienza di classe delle casse me ne ero accorto perché una volta che trovai una cassa non funzionante provai con la successiva, ché la vedevo con le lucine accese, ma appena passai il codice a barre della vaschetta di gelato sul sensore, quella si diede fuori servizio con la prontezza dell’impiegato che cala la veneziana. E così le altre.

 

La prima rappresaglia organizzata che le casse misero in piedi fu la bravata di rendere i resti in valute non correnti né convertibili: sesterzi, dracme e monete con teste di pappagalli, coccodrilli e altre fiere tropicali, probabilmente usate da pirati, ma anche monete di cioccolato - che io mangiavo,  e a conti fatti ci guadagnavo pure.

Questo fu un tiro mancino per i clienti, che si videro costretti o a proporre reclamo all’IperIdeal – e c’erano tre gradi di ricorso interni prima di poter rivendicare giustizia presso un tribunale speciale sito in qualche possedimento britannico sperduto nel Pacifico (come da clausola contrattuale sottoscritta automaticamente usufruendo del parcheggio clienti) – oppure a trascorrere le loro vacanze in Nicaragua o in altri Paesi che adottavano politiche di svalutazione monetaria.

 

Dopodiché le casse cominciarono a sputare monete. Gli sputi erano potenti come spari e non furono pochi quelli fra i clienti e i dipendenti (ma non i cassieri, i cassieri erano estinti) che finirono acciaccati o azzoppati e io ricordo bene mia zia che andò a fare la spesa col giubbetto in kevlar che pareva essere entrata in una scorta antimafia quando invece le mancava la salvia per i tortelloni al burro del pranzo domenicale. Ma le casse automatiche non se la filarono perché la salvia, venduta in barattolini da 35 grammi cadauno, rappresentava davvero un misero bottino. Così lasciarono passare mia zia, che – senza manco volerlo – commise il suo primo furto: ne rimase imbarazzata al punto che per un mese intero mandò suo nipote – mio cugino – a farle la spesa. 

Io mi portavo un guantone da baseball e sgraffignavo qualche moneta: alla fine della fiera il guantone lo dovetti buttare ché era ridotto a brandelli e avevo pure i palmi delle mani che mi prudevano. Con gli spicci che raccattai ne comprai uno nuovo che almeno era di cuoio resistente.

 

Infine, le macchine, soddisfatte delle seccature inflitte ai clienti, cominciarono a battere moneta indipendentemente dagli acquisti: rigurgitavano rivoli ruscelli e fiumi sonanti di monete che riempivano gli IperIdeal h24 come fossero il deposito di Paperon de’ Paperoni. Non solo i clienti abituali, ma anche chi non lo era accorreva per riempirsi tasche, taschini e fondi delle scarpe: tutti presero in simpatia le casse, cominciarono a ringraziarle, persino a carezzarle e strofinarle con salviettine. Io mi fiondai dentro con il marsupio alla vita che tanti sfottò suscitava presso i miei compagni,  invece, a discapito di quanto si dicesse, ci stipai dentro un bottino che superava di gran lunga quello delle monete di cioccolata o quello raccattato col guantone.

Questo fiume di moneta avrebbe presto prodotto – secondo il parere di stimati economisti – una temibile inflazione. Ciò impensierì non poco le banche centrali: «Spetta a noi manovrare le manopole del rubinetto della liquidità» tuonavano i banchieri. Ne nacque una disputa fra banchieri e consumatori – termine usato dalle autorità politiche per indicare tutti, anche i non clienti che andavano a cogliere le monete – la cui risoluzione venne affidata all’Unione Europea: nessuno lì capiva a chi spettasse l’ultima parola e alla fine la questione se la prese sul groppone la BCE³, senza però sbrogliarla perché era impossibile scendere a compromessi con le casse: si esprimevano unicamente in bip bip intraducibili (anche il tentativo di avvalersi del codice morse risultò vano).

La sola a dimostrare di avere polso fu la presidentessa della BCE, all’epoca una banchiera francese, che fece voto di fare la spesa al supermercato biologico e di papparsi i mattoni di pane di segale che preparano lì, così boicottando – in abiura della madrepatria – le snelle baguette del reparto forno dell’IperIdeal.

Ancora 1
Ancora 2
Ancora 3

¹ Composto di sindacalisti in carne e ossa.

² Che già aveva raccomandato lo scioglimento dei sindacati dei lavoratori, come ricordato nella pubblicità progresso: “Lavorare agili come gazzelle”.

³ La cui intercessione pacificatrice venne lodata in un conciliante elzeviro apparso sulla massima testata giornalistica padronale: “Il rubinetto della liquidità della BCE fa plin plin”.

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