La conchiglia
Illustrazione di Ellepi Illustrations
Ho chiuso la porta della cucina. Per essere sicura, con doppia mandata di chiave. L'ho affogata nella tasca dei pantaloni, sperando di dimenticarla. La fame tende a presentarsi con più frequenza e a volte finisco per scambiarla anche con altro. Sono triste, allora penso a mangiare. Mi sento vuota, allora mi riempio con del buon cibo in scatola. Sono sola, sono maledettamente sola, e allora apparecchio per due, accendo una candela e cucino l’ultimo piatto di spaghetti, porzione doppia. Dopo un primo, timido, sollievo, arriva il peggioramento: la consapevolezza che metà andrà buttata.
Ho chiuso a chiave la porta della cucina perché per ingannare la sete capita che mangi una delle ultime mele buone, oppure che beva l’olio dei fagioli in scatola. La sete si placa per pochi minuti, poi torna più feroce. Trattengo la saliva, lasciando che si concentri sotto la lingua. Impiego sempre più tempo, e quando inghiotto non è soddisfacente. È tremendo, tremendo, giuro, essere circondati da acqua e non poterne bere. Ho provato a chiudere le tende del salone, ma i riflessi delle correnti si rincorrono sulle pareti. Quando la sete diventa insopportabile, chiudo gli occhi e assecondo la debolezza: se solo riuscissi a resistere, la farei finita una volta per tutte. Invece no: mi alzo, mi trascino, afferro la maniglia, la forzo, cerco la chiave tra la stoffa e i fazzoletti, apro. A volte vado al rubinetto e poi ricordo che da lì non scorre più. L’ultima acqua minerale: un guscio da mezzo litro di cui restano poche dita. Svito il tappo, mi bagno le labbra, e quando non basta lascio cadere qualche goccia sulla lingua. A volte, dopo il sollievo, ributto tutto dentro la bottiglietta. Così durerà di più. Così forse non ne morirò. Dicevano, quando ancora gli altri esseri umani esistevano e avevano qualcuno con cui parlare, che quando tutto finisce torniamo a essere polvere. E se diventassimo acqua?
«Agostino? Agostino, ecco dove eri finito! Ti dico sempre che devi dire a mamma dove vai a cacciarti! Che poi sono vecchia, e il mio cuore è ballerino, e tu mi vuoi far prendere un colpo, Agostino? No, Agostino, non piangere, fa niente. Vieni qua che facciamo la pace. Fatti abbracciare da mamma. Tra poco mi prenderai in braccio te, tanto sei grande. Ma dentro, dentro la tua testolina, Agostino, resterai sempre un bambino».
Tirare le tende può distrarmi da ciò che vedrei là fuori, ma il rumore non può essere bloccato. Il gorgoglio delle onde anestetizza la mancanza di altri suoni. Puoi stare ore ferma con le ultime forze che ti rimangono a cercare di captare un rumore - un rumore qualsiasi, vi prego. Dove prima c’erano le strade, adesso ci sono i fondali. E dove prima volavano gli uccelli, ora boccheggiano i pesci. Il grattacielo in cui vivo non arriva oltre la superficie dell’acqua.
Agostino, i palmi chiusi in una conca. Apre la manopola della doccia e si ritrae quando l'acqua fredda picchietta sulla sua pelle. Chiude la stretta senza soffocare gli spazi, quasi avesse tra le dita un volone caduto dal nido. Sono troppi, pensa, e come ogni pensiero ha un movimento lento. Qualcosa coccheggia là dentro, come piatti impilati nella cucina di mamma. È delicato, pensa, perché solo ciò che è fragile fa questo rumore. Apre e sbircia. «Ma non ci posso credere!». E lava ancora, mentre l’acqua gli scorre addosso sempre più fredda. Non dice più nulla.
La solitudine non mi spaventa più: finirà, come ogni cosa, come me. Il primo giorno ho bussato alle altre porte del piano. Ho appoggiato l’orecchio sui portoni aspettando un rumore, o un brusio. Mi sarebbe bastato un sospiro, un gemito a cui appigliarmi per usare tutta la forza del mio corpo e sfondare la barriera. Semisconosciuti con cui passare il resto delle giornate, in attesa che le acque si ritirassero. Ma l’oceano adesso è diventato aria, e io ne ho fame. Il fiato corto, quando cammino intorno al divano in cerca di segnali: un sommozzatore, un sommergibile, una sirena. «C'è qualcuno là fuori? C'è vita là fuori?»
Ho pensato che sarebbe bello vedere un volto prima di morire. Non ricordare, ma incontrare. Trovare la forza di sopravvivere, insieme.
Eppure devono esserci superstiti là fuori, anzi, là dentro. Qualcuno che si trovasse al riparo prima che l’onda arrivasse e travolgesse chiunque fosse in strada. Qualcun altro oltre me.
Agostino appoggia le conchiglie sul telo da mare. Disegna un cuore di fronte alla madre. La madreperla bianca luccica appena mentre si avvicina l’ora del tramonto. In un secchiello ha raccolto un gomitolo d’alga, qualche stecco di diverse dimensioni. Non ha portato la paletta e l'innaffiatoio perché la mamma gli ha detto che sarebbe cosa di cui vergognarsi alla sua età. Afferra la conchiglia più preziosa, quella che ha posizionato al centro della composizione, e se la porta all’orecchio.
Se bevessi l’ultimo goccio, se lo inghiottissi davvero, quando finirebbe tutto? È giusto arrendersi così o sarebbe meglio continuare ad aspettare? A volte ho la sensazione che l’acqua stia entrando dal basso, e che a poco a poco salga fino al mio piano. Quando mi troverà, forse diventerò una sirena. Forse non avrò più bisogno di bere o di respirare.
Se sua madre gli chiedesse a che cosa assomiglia, direbbe a un castello. No, anzi, a una torre. No, meglio: a un piccolo grattacielo. Ma i grattacieli non sono piccoli, anzi, sfiorano le nuvole. Ma i grattacieli stanno sull’asfalto e non sulla sabbia.
Accompagno le tende verso le pareti, così da scoprire la finestra. Bollicine di acqua si aggrappano alla superficie del vetro, come volessero entrare e cercare riparo qui, in questo appartamento. A volte mi disorienta pensare quanto buio ci sia più in basso, negli abissi, dove la luce del sole non arriva. Un giorno è passato un pesce, e guardando nella mia direzione ha aperto la bocca. Ho imitato il suo movimento, sperando che capisse il mio saluto. Poi anche il mare deve essere diventato veleno, perché non l’ho visto più.
Agostino porta la conchiglia all’orecchio, perché gli è stato detto che si può ascoltare il rumore delle onde. Si concentra, cercando di capire meglio: è una voce, quella. Una voce femminile che canta.
Basta, non berrò più. Bisogna riconoscere il momento della resa, e poi ho paura di diventare acqua anche io. Ho visto tutto trasformarsi sotto di lei, con lei. Potrebbe succedere persino a me? Potrebbe ridurmi in poche molecole, e finirei per non essere più.
Così, dico, così è la vita che va e che un giorno poi fugge, come le maree, come la risacca e l’alternarsi delle correnti.
«Sh», imito il loro suono. O forse chiedo al bisogno di bere di tacere. «Sh», sussurro per un tempo lungo. Poi non canto più.
Agostino accarezza la superficie: è il tempo ad averla segnata, ad averla resa speciale. È così preziosa quella conchiglia, è così unica.
«Ma non ci posso credere!», ripete Agostino.
«Hai detto qualcosa?»
Scuote il capo, senza ascoltarla. Con un dito accarezza un piccolo foro sulla conchiglia.
È buio? È silenzio? Fredda la superficie sulle mie mani e sulla mia fronte. Deboli le ginocchia. Una fitta. Provo a bagnare la bocca: resta asciutta. Il mio corpo sul pavimento, tranne quelle dita che resistono appoggiate sul vetro. Il buio del battito di ciglia. Un ondeggiare confuso. Subito dopo, lo vedo.
«Agostino, non vorrai mica portare quelle robe là a casa? Saranno ancora piene di sabbia. No, non sei neppure in grado di lavare bene le tue mani, come pensi di aver tolto TUTTA la rena? Sei così dolce, Agostino. Se non mi facessi così… tenerezza. Che poi tristezza e tenerezza si assomigliano pure».
Ha gli occhi buoni, e grandi. I più blu che abbia mai visto. Capelli appena in disordine, immagino per colpa dell’acqua. Sorride, e vorrei rispondere anche io, se solo avessi la forza di farlo.
Immagino l'acqua entrare nella sua bocca. Per i pesci l’acqua salata non è un fastidio. Potrei abituarmi, un giorno, imparare a vivere là fuori.
È solo una speranza, l’ultima. Il tempo di un battito di ciglia e niente è più.
«Agostino, non vorrai mica portare quelle robe là a casa... Buttale. Non pensarci più».