Il Minotauro incontra l'Aleph: il ritorno
Illustrazione di Ellepi Illustrations
Si alzò, lasciando la coperta stesa sul prato, le briciole sparse e i piatti ormai vuoti. Fece qualche passo. Gli altri gli chiesero dove andasse e con un gesto indicò gli alberi distanti. Lo lasciarono andare, immaginando un altro bisogno. Abbandonò il sole ed entrò nel bosco.
Camminò su un tappeto di foglie umide, gialle. Poco prima aveva visto una nuvola. Era rimasta sospesa nel cielo. Una scarpa urtò il riccio di una castagna. I frutti si sparsero sul terreno. Ne calpestò uno e continuò a camminare. Sentì il rumore di un ramo spezzarsi sotto il suo peso. Si fermò un attimo. Poggiò la mano sulla superficie muschiosa e umida di un tronco e si guardò attorno. Alberi, felci, foglie. Alle sue spalle, il bosco era rischiarato dalla luce. Davanti era già buio. Avanzò. La nuvola si era mossa, fermandosi sopra il bosco. Sentì un odore selvatico, un fruscio. Continuò ad andare. D’un tratto era stata risucchiata verso il basso e lui si era alzato, lasciando la coperta stesa sul prato, le briciole sparse e i piatti ormai vuoti. Era entrato nel bosco.
Continuò a camminare, sebbene fosse notte e gli alberi nascondessero la luce della luna e delle stelle. Camminò nel freddo che era iniziato a calare, nei suoi abiti umidi. Solo teneva le mani in tasca per trattenere un minimo di calore. Una volta inciampò in una radice. Fece in tempo a tirare fuori le mani per attutire la caduta. Da una gli arrivò un dolore acuto procuratogli da una pietra. Le pulì entrambe sulla camicia. Provò una nuova fitta a quella ferita. Sul palmo sentì del sangue. Lo avvicinò alla bocca. Lo leccò, sentendo sulla lingua il sapore di se stesso mischiato alla terra. Un uccello volò davanti a lui, si posò su un ramo, emise un tristo verso, ma non ebbe paura e riprese ad andare.
Un’altra volta sentì delle spine conficcarsi nella stoffa dei suoi pantaloni. Cercò di liberarsi. Udì uno strappo. La notte invernale si infilò all’interno. Toccò la sua gamba. I passi affondarono nella neve. Sentì le scarpe bagnate e pesanti, ma nonostante il freddo continuò a procedere. Seppure non vedesse nulla, non gli capitò mai di urtare tronchi e rami. Sapeva dov’erano gli alberi. Solo una volta urtò una ragnatela sospesa. Sentì il ragno sulla fronte, le otto zampe muoversi sulla sua pelle, lungo una guancia, verso la bocca. La aprì per accogliere il ragno. Le zampe proseguirono sulla lingua. Gli solleticò la gola. Sentì le otto zampe camminare giù finché non raggiunse il centro. Là si fermò e da quel punto prese a tessere una tela. Mentre il ragno creava cerchi concentrici al suo interno, riprese ad andare.
Sentì i rumori del bosco come era certo di non averli mai sentiti prima. Gli arrivò il rumore di un lombrico e la fatica che faceva per scavarsi un passaggio. Sentì la parte anteriore del suo corpo penetrare nella terra alla ricerca di minuscole fessure. Gli arrivò la contrazione muscolare, l’ispessimento, il peso della terra sollevata, il senso del varco. Sentì il movimento incessante all’interno di un formicaio poco più sotto. Sentì una goccia d’acqua penetrare una radice, congiungersi alla linfa, dissolversi all’interno. Sentì la linfa risalire lungo il tronco, attraversare un ramo, trasformarsi in foglia. Sentì il nascere della foglia. Si tolse le scarpe pesanti e fradicie e le abbandonò in quel punto per camminare sull’erba vergine e tenera. In fondo al bosco, vide che stava rischiarando. L’aria cominciò a farsi tiepida e gli abiti lo infastidirono. Li tolse e li lasciò dietro di sé. Nudo attraversò la porta aperta di quella casa che era stata nuvola e che finalmente aveva raggiunto.
Si mosse lungo il corridoio e poi all’interno di stanze rischiarate soltanto dalla luna che penetrava incerta dai vetri. Salì scale e altre ne discese. Aprì porte e altre ne richiuse. Più volte gli sembrò di ritornare nello stesso punto, di ripercorrere gli stessi passi. Scoprì la vera natura del labirinto e la sua paura, ma non poteva scappare. Riprese a camminare sui piedi gonfi e pieni di vesciche per il lungo andare. Più volte pensò di fermarsi e aspettare che fosse il mostro ad arrivare a lui, ma ogni volta continuò a proseguire. Salì scale, spalancò porte su abissi vuoti, vi cadde dentro, ritrovandosi sul pavimento di nuove stanze. Scese altre scale e molte ne risalì, guardando la luce della luna che filtrava indecisa dai vetri, finché non si trovò in una stanza in cui era certo di non essere mai stato. Sulla parete di fronte vide un affresco. Tanti piccoli corpi ai lati, nudi, sofferenti. Decine di corpi e al centro, seduto su alcuni di essi, a schiacciarli, un mostro scuro, dal corpo di uomo e la faccia di toro. Le orbite erano vuote. La bocca aperta era ricoperta di sangue. Da una mano penzolava un corpo a cui il mostro aveva appena staccato la testa. Abbassò lo sguardo e tra le gambe del mostro riconobbe una porta. Restò là.
Soltanto quando fu pronto si avvicinò. Dovette chiudere gli occhi oltre la porta perché il soffitto di vetro lasciava filtrare la luce della luna con un’intensità che non aveva mai incontrato prima. Fu cieco a lungo e aspettò soltanto di essere mangiato dal mostro. A lungo attese, finché non prese a vedere delle ombre che divennero corpi riflessi in centodieci specchi attorno a lui. E riconobbe se stesso in centodieci volti, il suo corpo nudo e sporco e i piedi gonfi negli altri corpi. Soltanto allora uno dei centodieci si staccò dallo specchio e gli andò incontro. Si abbracciarono e l’altro si fuse nel suo abbraccio e fu dentro di lui. A uno a uno, anche gli altri si staccarono dagli specchi e lui li accolse dentro di sé. Quando fu uno e centodieci si accorse che dentro la stanza non c’era nessun’altro.
Guardò il soffitto di vetro e vide una finestra con dietro la luna smisurata, vicinissima a lui. Aprì la bocca, infilò una mano al suo interno e tirò un pezzetto di filo che il ragno, in tutto quel tempo, aveva continuato a tessere. Tirò e tirò e continuò a tirare intrecciando con quel filo una scala. Quando fu pronta l’accostò alla finestra e salì sopra. Un salto lo separava dalla luna. Si trovò su un terreno chiaro e polveroso. A tratti qualche scaglia puntuta fuoriusciva qua e là. Prese a camminare finché, dietro uno spuntone più alto degli altri, intravide il pianeta da cui era venuto. Si sedette a guardarlo nella sua piccolezza. E attorno, nello spazio buio, riconobbe il Sole e gli altri pianeti e le stelle e la galassia e altre stelle e galassie e pianeti. Prese ad ascoltarne il suono e a ripercorrerne i movimenti e, ripercorrendoli, riattraversò il tempo, fino al principio. Qua si fermò per lasciarsi abbracciare. Fuso in quell’abbraccio, ritornò là dove ogni cosa era infinite cose, all’inconcepibile tutto.