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Figlia d'arte

Illustrazione del racconto "Figlia d'arte" di Stefano Giannetti.

Illustrazione di Ellepi Illustrations

Una settimana fa ho realizzato il mio primo disegno realistico. Ho ritratto il volto di mia madre, l’ho fatto col carboncino. Con le tempere litigo ancora un po’, non riesco a ottenere tutte le sfumature come le vorrei. Quindi ritenevo di riuscire a dare il meglio così. Ho quattordici anni, spero di riuscire a dare il meglio prima di terminare il liceo artistico.


Ho disegnato mamma bella e gioiosa come quando giocava con me, quand’ero bambina. Quando stavamo sempre nel giardino di questa villa, e lei era la mia fata dei fiori. Quando a ritrarla era papà. Ho scavato nella mia mente per ritrovare quel ricordo, quelle sensazioni, quegli odori. Anche se sono gli stessi di oggi non lo sembrano, mutati dai ricordi.


Ho messo tutta la mia infanzia in quel viso, tutto il mio amore per lei e la mia nostalgia. L’ho rifatto così tante volte. Volevo fosse perfetto.


Gliel’ho portato in camera. «Un regalo per te», le ho detto, mentre la mia voce e il mio corpo tremavano emozionati.


L’ha distrutto.


Non subito. In un primo momento, è rimasta a guardarlo. Ha sorriso, ma subito dopo è scoppiata a piangere. Mi ha spinta fuori. Sono rimasta seduta per terra, con la schiena appoggiata alla porta che mi ha chiuso dietro; solo il suono dei suoi singhiozzi a tenermi compagnia.


Speravo di farla felice, di invogliarla a tornare quella di prima. Forse sono stata solo egoista. In un certo senso la capisco e non la biasimo.


Il giorno dopo sono riuscita ad entrare in camera sua in un momento in cui lei non c’era e ho trovato la mia tela fatta a pezzi. Quand’è tornata è rimasta immobile a fissarmi mentre stavo in piedi in mezzo allo sfacelo della stanza. Anche molte delle sue tele sono state strappate. I dipinti ancora integri sono i più macabri. Alcune figure che ritrae vorrebbero essere leggiadre, radiose, ma sono decadenti. Hanno la morte nel volto, la pelle che cade, sembrano volersi elevare ma precipitano.


Mamma si è avvicinata, mi ha guardata negli occhi, mi ha accarezzata. Una lacrima le ha rigato la guancia. Mi ha sussurrato.


«Non essere così. O diventerai come me.»


Non sono riuscita a dire una parola. Ho abbandonato la camera senza che mi dovesse cacciare come le altre volte.


Mamma voleva che restassi bambina, e non vuole che faccia l’artista. I bambini riescono a vivere nel loro mondo immaginario senza dover fare i conti con quello reale, dove la bellezza non esiste.


Secondo lei la bellezza sta solo nell’arte, si può solo creare, nella realtà non c’è, non la si può ritrovare. Quando l’uomo la genera, essa resta in quella dimensione fittizia, percepibile solo da un’elevazione dell’intelletto. Dall’immaginazione.


Il mondo è solo un insieme di numeri: calcoli matematici la cui tiranna precisione fa sì che l’equazione dell’universo mantenga l’equilibrio. Un cammino dell’umano verso la morte già deciso. Non c’è la luce, non c’è la scintilla, non c’è l’enfasi che avvertiamo nelle opere d’arte. Non c’è bellezza nel mondo. Dio e Madre natura sono solo frutto di un’ispirazione. Cose inventate per consolarci. Il vero artista sa che anche l’estro è condannato a morire col corpo, e la bellezza resterà sempre nel dipinto, in una poesia, in un film, in una canzone, senza poter uscirne mai.


Guardare nella tela per mamma era un supplizio, le ricordava la morte che c’è fuori. L’assenza di salvezza. L’arte illudeva la gente. Le faceva credere che poteva ritrovare quello splendore.


Allora aveva cercato di riprodurre fedelmente il reale, di ritrarre la morte, il brutto, lo sconforto. E il risultato delle sue opere l’aveva buttata ancora più giù: perfino quei quadri erano migliori della realtà, per quanto cupi. Questo perché erano la creatività, l’impegno, la suggestione che animava l’autore prima e lo spettatore poi a far sì che anche mostrando cose orrende, la finzione risultasse migliore del vero. Stava sempre su un piano più elevato.


Mamma mi amava quand’ero bambina, diceva che ero la sua unica vera opera d’arte. L’unica forma di bellezza visibile nel mondo reale. Mi odia ora che sono grande, perché ho voluto tentare la strada della pittura. Ho desiderato autocondannarmi alla consapevolezza, affrontare la grande delusione. Ha paura per me.


Vorrei starle vicina ma mi manda via. Allora quando ne ho la forza me ne sto qui, seduta per terra, a sentirla urlare. Ogni tanto batto la testa contro la porta per farle capire che ci sono.


Gridava tanto stamattina. Non posso fare niente per lei. Anche questi miei tentativi di condividere la sua tristezza non alleggeriscono il peso che porta.


Non posso fare niente per salvarla. Resto qui accovacciata, con la testa tra le gambe, mentre la sento aprire la finestra.


E poi non la sento più piangere.


La sua camera sta nel punto più alto della villa, e dà sul giardino. Entro e guardo dalla finestra.


Ti vedessi ora, mamma. Credi di esserti restituita totalmente al mondo reale. Ma pure con le braccia e le gambe spezzate, la vestaglia che lascia scoperte le tue intimità, gli occhi spalancati e la bocca storta in una smorfia perenne, inerme in mezzo ai nostri fiori, sei bellezza.

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