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Corpo

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Illustrazione di Anna Pesetti

“Guardami... guardami!”

Sfioro lo specchio. Non riesco a far scorrere i polpastrelli come vorrei sulla superficie. Sono sudati e vischiosi. Li premo, prestando attenzione a non sbilanciarmi. Appoggio lo zigomo sul ginocchio, espiro. Resto così, in posizione rannicchiata, per diversi minuti. Scruto.

Il volto riflesso assomiglia al mio, questo lo so, eppure non lo riconosco. Non mi appartiene. Mi guarda, come gli ho ordinato, ma non mi basta: non mi serve. Quello sguardo è neutro, vuoto. La mano riflessa trema, lo fa anche la mia. La privo della forza cosicché cada sul pavimento polveroso. La mano si sporca. La porto alla caviglia, stringo. La faccio scorrere lungo la tibia, resta una striscia scura a testimonianza del suo passaggio. Arriva al ginocchio e la fermo. Faccio lo stesso con l’altra mano. Mi dondolo, sembra consolatorio. Il riflesso allo specchio però non lo è, così abbasso lo sguardo. Infilo il viso tra le ginocchia e poi stringo. Tappo le orecchie e il sibilo si attenua. Significa che viene da fuori, non dalla mia testa. I miei sensi funzionano ancora.

“Cosa ci faccio qui” non è una domanda, è un lamento. Non c’è eco, il suono è chiuso, come lo sono io. Rimbalza nel mio cranio. Ci frugo dentro, non trovo nulla, non ho consapevolezza, non ho direzione, solo parole vuote, schiacciate.

Percorro con lo sguardo i muri intorno a me: tre pareti di cemento, la quarta è lo specchio. Mi sembrano sempre più vicine, strette. Non c’è una finestra, non c’è una porta, nessun passaggio.

“Che ci faccio qui?” Nessuna risposta, non arriva nulla, né da dentro né da fuori di me.

Mi sbilancio in avanti e poggio le mani a terra. Muovo una gamba e poi l’altra, con cautela, strisciando sul pavimento piedi e ginocchia. Carponi, prendo un profondo respiro. Le mie costole si fanno più evidenti, lo so, anche se non le vedo. Inarco la schiena per prendere slancio, stacco le mani e sposto il peso sulle ginocchia. Le vertebre si allineano, dal coccige alla nuca. Alzo lo sguardo, con lentezza. Le mie paure prendono corpo: la testa sbatte. La muovo e sento strisciare e sfrigolare i capelli madidi contro il cemento freddo. Le ginocchia livide spingono e fanno male. Trattengo il fiato, come se questo potesse evitare alla consapevolezza di raggiungermi, ma è inutile. La stanza si è ristretta ancora.

Il petto sobbalza in un singhiozzo soffocato, non posso evitarlo. Non posso nemmeno evitare di guardarmi allo specchio. Il mio corpo nudo, incastrato tra pavimento e soffitto. Mi sento spingere, schiacciare. Non so dove sia il sopra e il sotto, la stanza mi vortica attorno, lo specchio si inarca, sembra volermi inghiottire. Nausea: la nausea mi aggredisce, stritola le budella, spinge verso la gola, contro il palato. Vomito bile. La lascio colare, dalla bocca. Sputo, per liberarmi dal disgusto e provo sollievo.

Mi concentro sul volto, inspiro rabbia dalle narici, le vedo allargarsi.

“Non sei me! Non sei me.” Odio quella faccia, quella figura patetica, nuda, debole. Mi stringo tra le braccia, la pelle sul petto si increspa. Ansimo, il respiro si fa corto e la saliva mi va di traverso, tossisco. Provo a deglutire, a trattenere il fiato, tossisco ancora. Le formiche mi invadono il corpo: uno sciame aggredisce i piedi e risale per le gambe, per il busto, per il collo. Getto lo sguardo al riflesso: non le vedo, non c’è nulla, solo la mia pelle nuda. Sono i miei occhi a ingannarmi o i miei sensi? Non lo so, non conta, è la stessa cosa. La visuale si oscura, la vignetta si chiude, il buio mi aggredisce. Qualcosa sbatte contro la faccia, lo fa con violenza. Fatico a respirare, il mio naso è schiacciato. Sento l’odore del cemento, della polvere e del vomito. Vuoto.

Il sibilo si spalma sulla mia pelle, la avvolge, la fa pulsare, ritmicamente. Arriva alla testa, entra dalle orecchie, si insinua nel cervello e mischia i miei pensieri. Si agganciano, gli uni agli altri. Insalubri, pesanti, insostenibili: devo farli uscire. Mi sveglio.

La stanza è poco più grande del mio corpo. Non c’è spazio per la paura né per alcun sentire: posso solo percepire. Il pavimento è duro, vischioso: è coperto da un impasto di polvere, vomito e sudore. Mi duole la schiena, le scapole, le natiche. Il mio fiato, caldo e umido, non si allontana dalla mia faccia: non ha vie di fuga. Le braccia, poggiate sul petto, sobbalzano a ogni battito del cuore. Di poco, ma lo sento. Stacco una mano e la ruoto verso l’alto. Appoggio i polpastrelli sul soffitto. Premo, non succede nulla. Premo più forte, finché le dita non diventano pallide. So che è inutile, lo faccio per istinto.

Voglio ruotare sul fianco, ma è più difficile del previsto. Le ginocchia urtano e le braccia, bloccate, non mi aiutano. Fallisco: sono ancora in posizione supina, come un insetto, disgustoso, senza possibilità di salvarsi. Mi dondolo: destra, sinistra, amplifico il movimento, finché non ho lo slancio sufficiente. Un colpo deciso e il peso del mio corpo è sul fianco sinistro, mentre la spalla destra è morsa dal dolore. Ha strisciato con violenza sul cemento del soffitto e ora sanguina. Il sangue dalla spalla cola viscido e lento lungo la clavicola, fino ad arrivare a portata della mia lingua. Lo lecco: è sapido, tiepido e misto a sudore. È reale, concreto, vero e mio. Il sangue è mio! Lo riconosco. Mi appartiene.

La mia cassa toracica è schiacciata, fatico a respirare. Mi guardo. Il sangue è vermiglio, sulla mia pelle grigia. Grigia come il cemento nel quale m’immergo. Il cemento si fonde al mio corpo, lo ingloba. Il mio corpo è la mia prigione, ma il sangue è libero. Il sangue è mio, il sangue sono io. Fisso il volto allo specchio, vedo la bocca sporca, gli occhi attenti. Percorro quel profilo, lo accetto. Può appartenermi, far parte di me. È familiare, amico, e provo compassione. Vorrei prendermene cura, salvarlo. Gli occhi si riempiono di lacrime, mentre ansimo, in cerca di vita. Il torace non può dilatarsi, il respiro si fa corto. Il cuore accelera, lo sento battere dentro di me e il sibilo pulsa con me, ritmico, rassicurante.

Sorrido, rido e piango. La vita scorre nella carne, nelle ossa. Mi pervade, mi scalda, mi avvolge. Mi guardo e ricordo il mio nome. Ricordo perché sono qui. Allungo una mano per toccare il mio volto riflesso, ma non riesco: i polpastrelli affondano. Il respiro si interrompe e la ritraggo. Riprovo e succede ancora, ma stavolta vado oltre: allungo il braccio, la spalla ferita striscia sul cemento, brucia. Amo quel dolore, ci sento la vita. Stendo anche l’altro braccio, il torace si comprime ancora di più, grido la poca aria che rimane dentro di me,  grido di dolore e di sforzo. Sono in tachicardia, lo sento. Lo percepisco dentro e fuori. Ma voglio andare oltre, agogno la libertà: è vicina, è oltre, attraverso lo specchio.

L’immagine e il corpo si fondono e confondono. La carne brucia, le membra si sfibrano, ma non mi fermo finché non sono dall’altra parte.

Respiro. Non esistono più pareti: galleggio nel vuoto. La libertà mi pervade, mi inebria. E nel vuoto che riempie, nel silenzio che resta, comprendo di Essere.

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