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Buona festa!

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Illustrazione di Ellepi Illustrations

Quando usciamo dal Lato B la sera è placida e disadorna. Ryan tiene in mano un fusto di birra della Heineken che mostra come un trofeo. Prima di uscire dal portone faccio notare a lui e a Fiero che mi sono messo la felpa al contrario, con il cappuccio rivolto verso il basso. Lo faccio ridendo, e quando accenno a rimetterla a posto Ryan mi ferma: «Sei il nostro Papa ora, non puoi togliertela».

Fiero scoppia a ridere, qualcuno dei pochi rimasti ancora nella stanza si volta. Usciamo. Fuori troneggia il cantiere della nuova Feltrinelli di via Pasubio, grigio e imponente. Andiamo verso piazza Baiamonti, Ryan ha sempre in mano il fusto, dalla sua bocca escono brevi frasi che inneggiano al neocostituito Papa della notte. Arriviamo all'angolo con la piazza, c'è un kebabbaro aperto, ci fermiamo. Invece di rimanere fuori sui traballanti tavolini di metallo che occupano il marciapiede decidiamo di entrare. Ordino un menù kebab con patatine e panino senza salsa piccante e ci sediamo tutti e tre a un tavolino, al cui centro Ryan mette il fusto, senza preoccuparsi dell'irruenza. Beviamo quel che resta direttamente dal piccolo rubinetto e il tavolino si riempie di birra calda. Butto uno sguardo al kebabbaro che ci sta preparando i panini, non sembra preoccupato, probabilmente è abituato agli ospiti della notte. Nel locale ci siamo solo noi, che ridiamo e continuiamo a cantare; io mi aggiusto la felpa: il Papa è morto, divorato dalla notte incipiente. Arrivano i nostri panini, metto al centro le patatine per dividerle. Beviamo ancora.

«Sali a casa a prendere il rum», dice Fiero, «un Pampero al sapore di morte» aggiunge. 

Rido perché normalmente non berrei del Pampero, specie se scuro, ha un sapore che mi disgusta; ma stasera non mi oppongo, mi viene naturale. Nel locale entra un tizio dall'aria stravolta, apre il frigo sulla sinistra e sceglie una Tennent's dalle file più indietro. Ryan si alza dal tavolo e fa per tirare fuori il portafoglio per pagare. Gli dico che ho già pagato tutto io, lui replica con un cenno della mano che emula un saluto militare ed esce dal locale. Io e Fiero finiamo di mangiare e lo seguiamo, lui porta il fusto. Aspettiamo Ryan seduti ai tavolini esterni; adesso abita in piazza Baiamonti con un'amica. Lo aspettiamo in uno strano silenzio, che stride con i precedenti schiamazzi. Per questa attesa serve un raccoglimento, mi dico, mentre il rumore di un motorino che rosicchia il pavé mi pulsa nelle tempie.

 

Ryan ci raggiunge poco dopo, scuotendoci dal temporaneo torpore. Ha in mano una bottiglia di Pampero scuro piena a tre quarti. Ha l'aria di essere abbastanza vecchia, è ancora impolverata.

Penso per un istante al sapore che sentirò in bocca quando berrò e avverto il desiderio di desistere. Lo ricaccio subito, come un cattivo consiglio.

Beviamo un sorso a testa direttamente dalla bottiglia, poi ci incamminiamo verso China Town, dall'altro lato della piazza. È primavera, ma all'ingresso del quartiere troneggia sempre la scritta ALES illuminata da lucine simili a quelle natalizie, sospesa fra due caseggiati.

Ryan ci guida, cammina davanti a noi, con la bottiglia nella mano destra. Il solito passo spedito, leggermente nevrotico, lascia ora spazio a un'andatura lenta ma regolare. Fiero urla frasi sconnesse, battendo la mano sul fusto di birra ormai vuoto. Li seguo, mi unisco alle grida.

Il quartiere cinese è semideserto, le insegne sono spente, la notte circola, unica abitante di quel luogo silenzioso e spoglio. Ha un'altra faccia via Paolo Sarpi, di notte penso, distrattamente un'arteria che taglia a metà il quartiere, ora sgombra del sangue che trasporta di giorno. C'è una calma da cortile, non sembra di essere per strada. D'improvviso, Fiero si ferma e gridando scaglia il fusto di birra contro una claire abbassata. Il fragore trangugia il silenzio.

Ryan ride con gusto, fa per andare a recuperare il barile, ma con uno scatto repentino lo anticipo e me ne impossesso. Alzo lo sguardo, vedo uno di quei tabelloni pubblicitari appesi ad un palo. Urlo qualcosa di insensato e scaglio il fusto verso l'alto, tentando di colpirlo. «Centro perfetto!» dice Ryan, rimarcando l'atto con un fischio lungo e sordo, mentre raccoglie il barile per giocare la sua mossa. La notte ci contiene come ragni in una grondaia. È una notte di festa, di stralunati arrembaggi mossi verso chissà cosa. È una notte che ci appartiene. 

 

Fiero canta a squarciagola, gli faccio eco, mentre un tizio incrocia il nostro cammino con uno sguardo assente, vagamente sorpreso.

Passiamo accanto ad un'aiuola, pochi fiori, solo piante sgualcite. Al centro è piantato un cartello su cui troneggia una scritta che vieta l'ingresso ai cani.

Alla nostra processione serve un vessillo, penso; lo pensiamo tutti e tre nello stesso momento. Ryan si sporge oltre la bassa recinzione, io e Fiero ridiamo, lui ha ancora in mano il barile di birra, ormai ammaccato. Estrae il segnale con facilità dal terreno, intorno a noi il deserto assoluto, si sente in lontananza il latrato di un cane.

Siamo in un tratto di strada buio, il lampione è rotto e l'illuminazione è scarsa. Via Paolo Sarpi è un lungo serpente addormentato, grigio e adagiato a terra sotto il cielo notturno.

Ora Ryan porta il cartello come uno stemma, lo agita, intona qualcosa; anche il nostro incedere si fa più solenne, io e Fiero camminiamo dietro a Ryan che tiene in mano il nostro nuovo stendardo. «Hare Krishna!» improvviso, «Hare Krishna!» mi fa eco Ryan unendosi al coro. Fiero leggermente indietro, quasi appartato. Con un impeto che sfiora la rabbia, scaglia il barile contro un'altra claire.

Proseguiamo la nostra marcia allucinata, siamo quasi alla fine della via. La notte cresce lentamente, senza fretta, come una creatura che apprende a camminare. Ha qualcosa che ci assomiglia. Guardo Fiero, in fondo agli occhi ha una linea smagrita di tristezza, che sgomita per uscire.

Conosco quello sguardo, penso, conosco dove porta.

Prendo un sorso di Pampero, il disgusto mi aggredisce la bocca, poi la gola. Provo a offrirgliene, lui con mia sorpresa non rifiuta, ne beve anzi più a fondo. 

 

Ryan continua a camminare in testa al trio, reggendo il cartello che abbiamo strappato alla solitudine notturna. D'improvviso si arresta, è fermo davanti a qualcosa che non riusciamo ancora a vedere, il suo sguardo ci esorta a raggiungerlo.

Guardo Fiero per un secondo e ho l'impressione che per lui duri molto di più. Non accelera il passo, cammina con il Pampero in una mano e il barile di birra nell'altra. Lo precedo di poco, a mani sgombre. Il silenzio è completo, inossidabile. 

Ryan non dice niente, io neanche, ci aspetta a pochi passi, con lo sguardo fisso su di un punto che ancora ci appare imprecisato. Quando lo raggiungiamo, Fiero appoggia la bottiglia di Pampero a terra. Guarda Ryan di sfuggita, volta gli occhi, guarda in basso. Sulla nostra sinistra la rampa di un garage si perde nel buio.

In un istante, comprendo a mia volta e faccio un passo indietro, abbozzando vagamente un inchino. Ryan è in piedi, lo sguardo solenne, le braccia conserte. Ha appoggiato il cartello al muro e fissa la rampa come incantato.

«Adieu mon ami!» urla di colpo Fiero, prima di scagliare il barile giù dalla rampa. Il buio lo inghiotte all'istante, ma non ne nasconde il rumore metallico. Come se si fosse accesa una lampadina in una stanza senza luce, il suono prepotente di un antifurto si diffonde nell'aria. Da un balcone qualcuno grida qualcosa, poi la minaccia dell'imminente arrivo della polizia. «Via, raga, andiamocene» dice Ryan
«NNNNibali in volataaaa» esclamo io, prima di iniziare a correre. Corriamo tutti e tre, cominciando il movimento all'unisono, come cavalli allo scoccare di una corsa. Una sirena sta suonando, è abbastanza vicina, ma dubito c'entri qualcosa con noi, penso mentre ci fermiamo. 

 

Siamo ai margini di China Town. Questo lato del quartiere è un reticolo di stradine irriconoscibili l’una dall’altra, alcune non più lunghe di venti metri. Camminiamo riprendendo fiato. Non c'è nessun altro, le insegne sono spente e le claire abbassate.

A un certo punto sento un rumore improvviso, guardo Ryan, ci voltiamo di scatto. Fiero ha tirato giù una lanterna di carta appesa fuori da un ristorante, ha urlato qualcosa, poi il rumore ha scosso me e Ryan.

Ora la tiene fra le mani, leggermente spaesato. Immagino non si aspettasse di tirarla giù. La strada è defilata e deserta, nessuno si è accorto di nulla. Rido con Ryan e lui prende la lanterna dalle mani di Fiero e gliela mette in testa, cercando di incastrarla.

Bevo un sorso di Pampero, poi mi unisco a Ryan che sta inneggiando al re rosso della notte cinese. Camminiamo quasi in fila orizzontale, sembriamo uno schieramento di soldati in marcia, il nostro fucile è la bottiglia di Pampero ormai quasi vuota. Il nostro capitano e re, Fiero, avanza in mezzo alle fila, ostentando un passo di marcia.

Da un portone laterale esce un ragazzo asiatico, ha le mani in tasca e cammina con estrema lentezza. Quando ci vede abbozza un sorriso, non è forzato né stranito, soltanto gentile. Gli rispondiamo con un coro confuso, ognuno dice parole a caso, senza coordinazione, ma l'effetto sembra piacergli, il suo sorriso rimane stampato sul viso illuminato da un lampione. Ci allontaniamo aumentando il volume dei nostri schiamazzi, alle nostre spalle ci sentiamo salutare: «BUONA FESTA!» ci dice il ragazzo, prima di andare via, con la stessa precisa lentezza con cui lo abbiamo visto apparire.

Ryan coglie la palla al balzo: «BUONA FESTA!» urla, con rinnovato vigore.

Gli facciamo coro, ripetendo quella frase. China Town ci ha battezzati, regalandoci una frase per celebrare la nostra marcia indisturbata.

Fiero si è tolto la lanterna dalla testa e l'ha lanciata via, «BUONA FESTA!» ribadisce, prima di svanire in un vicoletto laterale. «Devo pisciare!» ci urla.

Non ci fermiamo, rallentiamo soltanto il cammino. Seguo Ryan poco più indietro, lui cammina più svelto, quasi frenetico. Fiero ricompare alle nostre spalle, alzo gli occhi dall'asfalto, siamo quasi all'Arco della Pace. Non ho idea di come siamo arrivati qui. 

 

Piove, realizzo di colpo che potrebbe aver piovuto finora, in realtà. Mi tasto la felpa, i jeans, sono bagnati. La pioggia è copiosa, uno scroscio primaverile. Presi alla sprovvista, ci ripariamo sotto un albero vicino ai gradoni e ci sediamo.

C'è un silenzio che sgombra ogni centimetro d'aria. Siamo seduti, imitiamo quel silenzio, gli occhi fissi da qualche parte sul pavé. Io ondeggio le gambe ritmicamente, mi accorgo che Ryan sta seguendo automaticamente quel movimento. La pioggia è insistente, in giro non c'è nessuno. Fiero ha un bastone in mano, ce ne accorgiamo ora. È un bastone piatto alla cui estremità è attaccato un chiodo. Non abbiamo idea di dove o quando l’abbia trovato. Ripete il nostro movimento colpendo le foglie di un ramo che pende. Lo sguardo è vacuo e assente. Non ha più la lanterna in testa. 

Penso per un secondo di urlare: BUONA FESTA!, ma mi accorgo che sarebbe completamente fuori luogo. Guardo la bottiglia di Pampero, ne prendo un ultimo sorso. Il disgusto mi assale non appena mando giù, mi piega sulle gambe. Dietro di noi sentiamo la voce di un uomo: «Ragazzi, questo lo prendo io. Buona serata!» dice. Mi volto: è uno che lavora al locale alle nostre spalle, che sta per chiudere. Si è preso il bastone di Fiero, lui non ha reagito e neanche noi.

Piove sempre più forte, ci alziamo senza dire una parola e ci dirigiamo verso l'Arco per ripararci. Fiero mi guarda per un secondo, poi si allontana di qualche passo da me e Ryan. La pioggia continua a scrosciare, bagna i vetri delle auto immobili, i rami sottili degli alberi. Scivola sulla città intera e sulle parentesi che lascia aperte nella notte. Il cielo scuro è segnato dalle luci di corso Sempione, oltre l’Arco; nella curva che disegna ci ripariamo dalla pioggia come da uno schiaffo. Fiero guarda fisso davanti a sé. Con le mani si tiene le ginocchia, la schiena incurvata, mentre un tram crepita sui binari frammentando il silenzio. «Non c’è più posto per noi stanotte», sembra pronunciare senza voce. «Non c’è più un posto per noi». Lancio un'occhiata alle mie spalle. Anche la bottiglia di Pampero è lì, vuota, a riempirsi d'acqua.

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