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Sono rotto

Illustrazione del racconto "Sono rotto" di Francesca Coppola.

Illustrazione di Ellepi Illustrations

       Mi chiede l’ora, io guardo l'orologio e ciò che vedo sono le lancette. Le lancette si muovono lentamente vicino ai numeri posti in una specie di ruota. Potrei conoscere la risposta, non saprei come darla.

«È semplice» dice e poi ride. Ed io mi sento rotto. 

«Non sei in grado» aggiunge. «Non riesci a...» e continua, continua in una litania che finisce sempre allo stesso modo: in classe tutti ridono e il maestro tossisce, si sistema il colletto, torna al suo posto abbassando il capo e trattenendo, a stento, un risolino cattivo. Subito dopo chiama un altro bambino, che ovviamente è più pronto di me. Io sono svogliato mi ripetono e, quindi, ad un certo punto comincio a crederlo anche io. 

Pur applicandomi i numeri non mi restano in mente. 

A volte immagino le tabelline come dei piccoli diavoli che mi tormentano. 

 

Il maestro sostiene che non ho studiato, che non ho aperto il libro: ho preferito giocare alla Nintendo. Ieri, però, sono stato due ore col libro aperto e leggevo, o meglio cercavo di leggere e neanche nella testa le sillabe avevano la giusta sequenza. E ancora una volta sono inciampato in un buco nero, disegnato da me. 

Sono stupido, dice Alessia. E devo esserlo per forza perché solo gli stupidi come me hanno paura. Solo quelli come me arrancano di continuo, sudano, hanno tremori sparsi per il corpo e non sanno neanche il motivo. 

Ieri non riuscivo a ricordare le tabelline perché non le capivo. E allora, lo stomaco ha cominciato a stringersi e poi dilatarsi per poi stringersi ancora e ancora. Mi è sembrato di dover vomitare ma all’improvviso la mamma si è avvicinata perché, a suo dire, io ero distratto. Così mi ha portato una spremuta di arance e mi ha raccomandato di concentrarmi. 

Quando lei parla con le madri dei miei compagni di classe dice sempre che se solo volessi, che se solo io mi impegnassi, potrei riuscire in tutto, il problema è la volontà non l'intelligenza perché suo figlio non potrebbe mai essere ottuso.

Da qualche tempo mi obbliga a trascorrere un’ora in più a studiare, dopo aver finito tutti i compiti, ogni pomeriggio. Così ho imparato a disporre i libri come una torre, a fare le pieghe alle pagine dei quaderni. Mamma arriva e mi sgrida perché perdo tempo e non mi impegno e da me non se lo aspetta.

E io piango e lei si arrabbia perché sono viziato, perché non conosco il significato del duro lavoro, che ai suoi tempi le bacchettate erano caramelle e i regali cipolle.

 

Ed io vorrei raccontarle di Lucio, di quella volta che durante la lezione mi ha passato un biglietto con su scritto qualcosa. Di come cercavo di dare un significato a quelle lettere e avevo paura di non riuscire mai a decifrarle. Fantasticavo di un invito a casa sua, che gli altri della classe ci vanno quasi tutti i giorni e studiano e poi fanno merenda con il Kinder Pinguì e giocano alla Nintendo Switch.

Io che fissavo il biglietto e cercavo di mettere insieme le parole, mi sforzavo ma ugualmente non le capivo. Stringevo gli occhi, digrignando i denti. E mi dannavo, sfregandomi le mani, ficcando le mani nelle mani. Avvertivo le fitte che mi autoinfliggevo eppure non volevo sentire, perché sapevo di meritare la nausea, le vertigini, il distacco, il disagio e non essere mai nel luogo giusto e non essere mai giusto. Ero talmente concentrato da non sospettare la presenza della maestra alle mie spalle. E tutto, ad un certo punto sembrò muoversi in loop: strapparmi il foglietto dalle mani, leggerlo a voce alta e poi le urla. 

«Chi lo ha scritto?» Aveva detto. «Chi?»

«Non si deride chi ha meno…» aveva aggiunto.

 

Brutto asino: questo è quello che aveva scritto Lucio. 

 

Allora mi vedo chiudere i libri, spostare la sedia e correre via, lontano da quell’aula. 

Fuggivo e cercavo il maglione alla lavanda di mia madre. Ho trovato quello della maestra che mi aveva rincorso. Le sue mani si agitavano e la sua faccia sembrava stretta in una smorfia. 

Mi ha afferrato decisa. Ha mosso l’indice davanti ai miei occhi. Ha tenuto a farmi sapere che sono un gran maleducato e che non può far altro per me, tranne che condurmi dalla preside. La preside, dal canto suo, aveva elaborato un bel discorsetto sul comportamento, sull’importanza della condotta, che almeno se non spiccavo per intelligenza potevo essere un bravo bambino, almeno. La stanza era tutta in legno, la scrivania perfettamente lucidata, le parole fredde sbattevano da una parete all’altra. E non capivo in cosa sbagliavo. Girava la stanza, le parole come i numeri erano, da sempre, la mia ortica personale: mi sono grattato la testa, ho scalciato i miei stessi piedi ed ero rotto, ero rotto, ero rotto, ho pensato.

 

Sentivo tutti i pezzi che dall’interno mi sfregavano e ho urlato, ero pazzo. Ho messo insieme quello che ero per un momento: «Io sono rotto», ho detto. 

 

La preside credeva che io stessi scherzando. Ha scosso la testa e ha preso il cellulare per avvisare mia madre dell’accaduto. Mi sono seduto con la testa fra le mani, era sempre più pesante. Sentivo gli strappi, mi facevo a pezzi. Sono rotto – un altro spacco. Sono rotto – ancora crepe.

«Aspetta, stai fermo,» ha aggiunto.

 

Ho visto arrivare mia madre, era visibilmente affannata. La sua faccia era rossa, i capelli appena scomposti. Si era subito scusata, poi mi aveva preso per un braccio mentre le tendevo la mano. Siamo usciti e restati in silenzio. Quando ci siamo sistemati in macchina l’ho sentita prendere un gran respiro per potermi dire che le avevo fatto fare una brutta figura, che lei era stata brava quanto sua madre. Cucinava piatti appetitosi e gli ingredienti erano di prima qualità. Non mancava mai di comprarmi abiti nuovi e faceva attenzione allo stato delle mie scarpe. Senza contare che mi aveva mandato in una delle migliori scuole in circolazione. Lei aveva fatto un buon lavoro anche se da sola. Di mio padre non ricordavo nulla. Ho delle immagini di mia madre che si spazzolava capelli lunghi, ora invece li ha corti. 

 

Io non potevo essere così sbagliato, così diverso. «Perché tu non mi ascolti?»  aveva detto appoggiandomi, con forza, una mano sulle spalle.

Ed io volevo dirle che non capivo, che le lancette facevano un giro inverso, che i numeri avevano tutti un punto interrogativo.

Ma ho chiuso i pugni, facendo pressione con le unghie sulla pelle. In fin dei conti, in qualcosa ero bravo: sapevo schiacciarmi a dovere, sapevo frantumarmi con una certa facilità. Con me stesso, dentro me stesso, senza nessuna pietà.

 

E faccio il bravo, le ho detto. 

 

La mamma ha sospirato come se un grosso masso le si fosse appena spostato dal ventre. Il mio, invece, restava lì, sulla lingua, nella testa.

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