Ciò che è perduto

Illustrazione di Anna Pesetti
Da un giorno all’altro, la serratura si era bloccata.
Il cilindro, che normalmente ruotava fluido al girare della chiave, rimaneva immobile, come se qualcosa all’interno trattenesse ogni movimento, e le molle, che avrebbero dovuto spingere i perni, sembravano irrigidite. Il chiavistello restava incastrato nella bocchetta della serratura, arrendendosi a una silenziosa resistenza interna.
Niente, non si apre, sentenziò Elda, riponendo la chiave con disappunto.
Non metteva piede in quella stanza da moltissimo tempo. Aveva lasciato che gli oggetti vi si accumulassero, ne diventassero padroni, per poi abbandonarli a loro stessi. Dopo il trasloco, quel luogo aveva raccolto ciò che era superfluo, ingombrante, veicolo di nostalgie scomode o di smaltimenti onerosi, in scatole che si erano abbarbicate l’una sull'altra in una babele di cartone. Faticava a ricordare perfino cosa ci fosse, dietro quella porta, non ne aveva un inventario mentale, si era solo liberata di tutto ciò che non voleva tenere davanti agli occhi ogni giorno, con un’operazione lenta e costante di sottrazione. Meno oggetti, meno ricordi, meno oggetti, meno dolore, meno oggetti, meno passato. Meno oggetti, meno me, parte dopo parte, pezzi di tempo e carne occultati, ciò che si nasconde non scompare, lo sapeva, certo.
Ѐ che con la nuova casa la aspettava una vita nuova, così si era detta, così le avevano detto, ripetuto, quante bugie ci raccontiamo per convincerci che riusciremo ad andare avanti? Ricomincerai da capo, le dicevano, come fosse possibile ripartire ogni volta da zero, come non fossimo l’accumulo stanco di giorni legati dal lungo filo rosso della memoria.
Ora la porta si era bloccata e, per quanti spintoni provasse a darle, questa restava immobile e ostile come un muro. Soffiò nella serratura, il suo fiato caldo per convincerla a cedere in una magnanima concessione.
Sua sorella era stata la prima a dirle di liberarsi di tutto ciò che la faceva sprofondare nel buio pesto dell’angoscia, ma Elda, solo all’idea di gettare via i suoi ricordi, era scoppiata a piangere. Così sua sorella le aveva proposto un’alternativa: non buttare nulla, semplicemente chiudere tutto in una stanza, dietro una porta sigillata a chiave. Poi un giorno sarai pronta, l’aveva rassicurata, come fosse un’esperta e invece procedeva a tentoni, consigli blandi e ipotetici che si mascheravano da previsioni di un futuro certo e più facile. Elda l’aveva ascoltata, aveva voluto crederle, l’aveva fatto e così metà di ciò che possedeva era finito lì dentro, e ora che la porta era bloccata le telefonò e glielo disse, ho fatto quello che hai detto, ma ora che devo entrarci la porta è chiusa, non si apre.
Chiama un fabbro, le propose sua sorella, assonnata. Anche se mi sa che dovrai aspettare, vista l’ora.
Il punto è che devo entrarci proprio adesso, aveva ribattuto Elda con frustrazione.
Cosa può mai esserci di così urgente? Hai aspettato finora…
La tempesta ha crepato il vetro della finestra, ci entrerà acqua, da quel vetro rotto, si allagherà tutto.
Rimasero in silenzio a lungo.
Te la ricordi, quella filastrocca che a scuola avevamo dovuto imparare a memoria?, sua sorella chiese a un tratto. E iniziò a canticchiarla:
Dietro quella porta, chi c’è laggiù?
Un volto che guarda, ma non è più.
Un passo che aspetta, un’ombra che sale,
un sussurro che chiama, ma non ha nome.
Non bussare forte, non fare rumore,
la porta risponde se sente il tuo cuore.
Non la ricordo, ribatté Elda stordita, fissando la porta chiusa. La superficie opaca disegnava un sottile gioco di venature intorno a quella fessura che, per un attimo, le parve un occhio vigile, intento a spiarla.
Salutò sua sorella e interruppe la telefonata, si sedette davanti a quella porta a osservare, come se con la forza del pensiero potesse abbatterla, si abbracciò le gambe e iniziò a dondolare in attesa. Chiuse gli occhi, la voce della sorella ancora nella mente. Un sussurro che chiama, ma non ha nome…
Li riaprì d'improvviso quando udì un cling leggero proveniente dalla serratura. Balzò in piedi, il cuore che galoppava. Rimase in ascolto, i muscoli tesi, la notte che era diventata silenziosa e profonda, come un lungo sospiro. Solo la luce fioca proveniente dalla cucina illuminava lei e quella soglia.
Si avvicinò, allungando molto lentamente la mano verso la maniglia, e allontanando di contro il viso e il busto, nel caso qualcosa, o qualcuno, fosse stato pronto a sbucare da lì e assalirla in pieno volto. L’aveva sognato quel rumore? Appoggiò la mano sulla maniglia fredda e l’abbassò.
La porta si aprì piano, cigolando. Non era più bloccata.
Dentro era buio, l’interruttore non funzionava. Non può funzionare tutto, non funziona mai niente tutto insieme, si disse Elda, avanzando esitante tra quelle che riconosceva come le sagome di scatole ammassate, tra i ricordi di lei che, senza avere il coraggio di guardarci dentro, le chiudeva con il nastro adesivo, una dietro l’altra, ognuna a contenere tutto il suo dolore, pezzi di carne e tempo, di ciò che era stato e non sarà più, mai.
Il vetro della finestra era intatto, eppure rivoli d’acqua si erano infiltrati all’interno, formando pozzanghere. Avanzò bagnandosi i piedi, sollevando leggere onde sul pavimento.
D'improvviso, la sua attenzione fu colpita da un riflesso luminoso, un barlume che proveniva da un angolo della stanza. Nell'ombra, intravide un antico specchio con una cornice dorata. Trattenne il fiato: non lo aveva mai visto prima. Non aveva idea di come potesse essere finito lì dentro e avvertì un’ondata di gelo percorrerle la schiena. Seppe con certezza che qualunque cosa ci avrebbe visto riflessa, non sarebbe stata reale.
Un lieve tremore la percorse mentre si avvicinava, prendendo coraggio per sollevare lo sguardo. Il suo riflesso. Il viso che la fissava era vecchio, segnato dal tempo, i capelli una volta scuri ora di un bianco candido, la pelle sbiadita, rigata da profondi solchi che raccontavano una vita che lei non ricordava. La bocca distorta in un ghigno, gli occhi pozzi bagnati e oscuri.
Si allontanò di scatto, il cuore che batteva forte, la testa che girava, inciampò all’indietro e si trovò a terra, circondata da mura di scatole, si guardò le mani ed erano mani di vecchia, dita deformi, macchie scure, le portò al viso e riconobbe al tatto quei solchi, quelle rughe, si toccò i denti usurati, le gengive gonfie. E il corpo, il sentire un corpo non suo, la paura aveva mangiato tutti i suoi anni in una stanza chiusa, il pavimento bagnato e polveroso, cosa ne era stato di tutto quel tempo? Emise un urlo di spavento.
Dietro quella porta, chi c’è laggiù?
Un volto che guarda, ma non è più.
Elda si mise in piedi a fatica e iniziò ad aprire le scatole, con foga, convinta che ogni apertura avrebbe significato un ritorno indietro, apro questa, si disse, strappando con le unghie il nastro. Ma dentro non c’era niente, così passò ad un altro scatolone, si graffiò nel tentativo di strappare il cartone rigido, era vuoto, tutte erano vuote, aveva nascosto a sé stessa un vuoto grande e multiplo di se stesso, né oggetti né ricordi, solo un vuoto immenso quanto l’universo scuro.
Le venne in mente a un tratto, ricordo lontanissimo, quell’ultima strofa della filastrocca che da bambina aveva ripetuto a memoria, fino alla nausea:
Ciò che è perduto non tornerà più,
nulla resta di ciò che ormai fu.
Corse alla porta per scappare, la trovò com’era prima, bloccata, chiusa a chiave ma stavolta dall’esterno, e lei era ormai dentro, intrappolata. Batté i pugni e iniziò a chiamare il suo nome, se stessa, quella che lì fuori era seduta in attesa. Bussò per ore, ore, giorni, forse anni, bussò, e bussò ancora, esausta, fino a non avere più forze, ma la porta rimase chiusa.
